Ho letto con piacere l’articolo a firma di Forges Davanzati e Luigino Sergio dal titolo «Fusioni e innovazione. Gli enti locali promuovono lo sviluppo regionale». L’aspettativa dei due autori è da condividersi, specie nel Mezzogiorno, ove la fatica che fanno i Comuni ad andare avanti è di gran lunga più dura di quanto avviene altrove. Tuttavia, il pezzo dei due esperti mi suggerisce alcune osservazioni. Ciò in considerazione della povertà di infrastrutture patita dal Sud, in termini di strade, scuole, acquedotti e reti idriche, impianti fognari e chi più ne ha ne metta.
Vado per punti per rendere più chiaro il mio pensiero, che tengo a dire è comunque favorevole a tutti i processi aggregativi, purché pensati e regolati con ragionevolezza e coscienza.
1) Se da una parte è vero che la nostra PA non è regina nelle performance, dall’altra non è pensabile che non lo sia perché sottodimensionata di personale. Sono tutte le PA territoriali ad aver sofferto il blocco del turnover. Il tema della scarsa offerta degli enti locali è determinata soprattutto dallo storico difetto che i percorsi selettivi del personale non siano fondati sulla meritocrazia, bensì su pratiche di frequente clientelari. Tutto questo nella logica, che tanto a fare i bilanci, piuttosto che a scrivere la programmazione ci saranno i consulenti ovvero l’assistenza tecnica cui si fa soventemente ricorso negli enti locali e nelle Regioni. Un errore di ipotesi che ha generato il pandemonio culturale di oggi: pochi sanno fare e anche il Pnrr ne sarà vittima. Al riguardo, è ineludibile concretizzare una esauriente Compliance management che assicuri al meglio la correttezza dei processi e delle procedure atti a garantire l’ingresso a regime della intelligenza artificiale che cambierà radicalmente l’esercizio della burocrazia e i dati fondanti delle politiche locali.
2) È vero e in parte preoccupante che il «problema nel problema, nel caso soprattutto del Mezzogiorno e della Puglia, è costituito dall’elevata frammentazione istituzionale del settore pubblico». Ma, al riguardo occorre rilevarlo ovunque, e forse maggiormente nelle regioni poste a valle delle Alpi, ove i centri abitati sono spesso a contare la popolazione in decine di abitanti. Ma il problema c’è e con esso occorre fare i conti nell’aspirazione – in questi giorni manifestata dal Presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto – di pervenire ad una sensibile riduzione delle istituzioni locali, mettendo insieme i micro e i piccoli Comuni. In buona sostanza, mediante fusione, sia per incorporazione che per unione. Aggiungerei anche i medi, allorquando ricorra però la preventiva volontà popolare a proporla e le condizioni obiettive per intravedere grandi miglioramenti della qualità della vita, efficienza gestoria e maggiori economie, tali da rendere fruibili sia le funzioni fondamentali che i Lep che toccano alle amministrazioni comunali.
3) L’insieme dei Comuni, in specie quelli piccoli, rappresentano la cultura del nostro Paese e principalmente il modo di fare Nazione, con i propri dialetti, le peculiarità produttive e di vita quotidiana, di religioni e di propensione all’accoglimento. Proprio per questo motivo, guai a pensare ad arrivare ad attuare processi aggregativi «anche con l’obbligo della fusione». Sarebbe il guaio nel guaio. Fondamentale è il «manuale dei fenomeni» che consentono alle PA comunali di decidere, consapevolmente e amministrativamente, di unirsi ovvero di fondersi. Questo manuale suole chiamarsi documento-progetto di fattibilità che, diversamente da quelli in uso corrente, deve dimostrare la correttezza della decisione nel futuro, non già rintracciare nei deficit del passato la ratio.
4) Tra gli elementi da valutare nel percorso di dismissione della soggettività istituzionale locale c’è la storia delle specificità. Ed è qui che devono entrare ad assistere la decisione le professionalità interdisciplinari. Più necessarie quelle dei sociologi, dei filosofi, degli antropologi, degli economisti e via dicendo che quelle dei giuristi. Questi serviranno dopo, per perfezionare le carte della nuova città.
5) Concludendo, è da rilevare che in tutto ciò che ho letto e che ho scritto manca la parte più cerebrale: lo strumento di regolazione e quello programmazione. Il primo usato male dalle Regioni – da ultimo quello della Calabria che costituisce un vulnus di portata incostituzionale – che anziché tendere ad ampliare lo spettro della democrazia praticata lo restringono arrivando ad imporre l’improponibile. La seconda è quella che manca del tutto. Ogni Regione, infatti, solo che voglia organizzare al meglio il proprio progetto aggregativo delle realtà locali deve produrre leggi in tal senso, ma ben fatte, e strumenti programmatori delle aree a maggiore utilità. Siti geo-demografici nei quali i comuni interessati possano, prima, culturalizzare lo strumento attraverso il quale diventare, poi, «più grandi» ma soprattutto più efficienti. In una siffatta logica, non starebbero affatto male contribuzioni a destinazione vincolata da parte delle Regioni medesime.