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Quella macchina del fango che mutila la reputazione e lascia macchie indelebili

 
Pino Pisicchio

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Pino Pisicchio

Quella macchina del fango che mutila la reputazione e lascia macchie indelebili

Due eventi concorrono in una breve tornata di giorni a portare in primo piano il tema della dignità personale in rapporto all’azione giudiziaria e al diritto di cronaca

Domenica 07 Luglio 2024, 13:14

Due eventi concorrono in una breve tornata di giorni a portare in primo piano il tema della dignità personale in rapporto all’azione giudiziaria e al diritto di cronaca. Il primo è cultura: torna nei circuiti, restaurato in versione 4K un capolavoro di Bellocchio datato 1972: «Sbatti il mostro in prima pagina», il cui contenuto è svelato dal titolo. Il secondo è diritto: si tratta di un intervento del vice-presidente del CSM Pinelli, che ha messo in guardia sul frequente corto-circuito che si crea tra azione giudiziaria e media a danno dell’incolpato. Stimoli importanti che meritano attenzione.

Domandiamoci: cosa resta di una persona dopo che ha lasciato questa terra se non il ricordo della sua reputazione, la sua «faccia», l'immagine di sé che proietta nella comunità in cui vive? Chiamiamolo «decoro», chiamiamolo, con un lemma abusato nel linguaggio militare, «onore», quella speciale dignità della persona che la caratterizza nel contesto sociale è il bene in assoluto più importante di cui può disporre l'essere umano e che lo distingue dagli altri viventi. Si tratta di un bene tutelato dagli ordinamenti giuriudici ai livelli più alti: si parla, con linguaggio tecnico, di «diritto soggettivo perfetto» che trova una piena copertura nei primissimi articoli della Costituzione italiana, l'art. 2 e 3, così come viene ricordato dalla Corte di Cassazione in almeno un paio di sentenze. Non è un fuori luogo questo richiamo costituzionale se solo si pensa che sono quei due articoli a rappresentare le norme-principio su cui si può dire che la nostra Carta sia stata edificata, con l'attribuzione della rilevanza più alta alla «persona umana» e ai suoi diritti inviolabili, attraverso cui è possibile il suo sviluppo (rammentato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.13/1994). Si tratta di «diritti della personalità umana» - la reputazione, l'onore, la riservatezza, l'immagine, il nome - che si rappresentano come tessere di un unico mosaico.

Del resto la nostra Costituzione accoglie e valorizza un principio della cui centralità sono consapevoli anche altre culture nel mondo: si pensi al valore assoluto che assume la «faccia» nella cultura confuciana che ha impregnato di sé tutto il far east asiatico, a cominciare dalla Cina, fino a Singapore, includendo il Giappone e la Corea, tanto per parlare delle realtà più note. Si pensi al gesto del suicidio del guerriero giapponese che perde la sua battaglia ma sopravvive e completa il ciclo naturale di una sconfitta onorevole infilandosi la spada in corpo...

Chiarito il valore assoluto della reputazione, non appaia, allora, improprio il riferimento alla sua ingiusta mutilazione. Il tema è vecchio e abusato, ma non per questo meno attuale anche in forza del ragionamento del presidente Pinelli: se la reputazione viene violentata per mesi interi attraverso informazioni giudiziarie diffuse con inutile dovizia di particolari morbosi che ritornano con titoli, occhielli e reiterazioni da sfinimento, come se il richiamo quotidiano assolvesse ad un dovere sanzionatorio, non comminato però da nessuna sentenza; se l'esposizione sproporzionata genera di fatto una condanna senza appello per i sovraesposti, predisponendo anche un clima che certamente non si concilia con la necessaria serenità richiesta dal giudizio; se si mette nel nulla il principio contenuto nell'art.27 della Costituzione che considera l'imputato innocente fino al giudicato, che cosa resta di quel diritto fondamentale alla reputazione? Gli argomenti sono del Presidente Pinelli ma noi li riportiamo non per criticare - ci mancherebbe - il diritto/dovere di pubblicare informazioni rilevanti per la pubblica opinione. Il punto è che ciò che contrasta con quel diritto alla dignità reputazionale è il «di più» rappresentato da un certo accanimento, che asseconda la tendenza al giudizio sommario e che spicca particolarmente quando qualche personaggio della politica (in genere potente ma non troppo, meglio ex potente, perché così se massacri nessuno reagirà) viene messo in cattura. Chi mai potrà risarcire una persona messa alla berlina per mesi senza potersi difendere perché il processo non è ancora cominciato e a tenere banco sono solo le accuse, sollecitando una postura che consolida nella pubblica opinione tutto il pregiudizio antipolitico che cova nella sua pancia e che trova in certa prosa ruvida la conferma puntuale del suo immaginario? Quand’anche dovesse, passati i tempi non velocissimi della giustizia, uscirne pulito come un ragazzino alla prima comunione, riproposto ovviamente alla pubblica opinione con notizia nei titoli di coda, giusto per saldare il debito d’informazione, chi toglierebbe dalla testa della gente che «qualche cosa, qualche cosa d’ illegale, sicuramente deve averla fatta, se no mica la magistratura lo metteva sotto!». Abbiamo sentito quella frase letale, e non una volta sola, detta da «gente normale» riferendosi a Enzo Tortora, protomartire della macchina del fango. Che sembra non staccarsi mai più.

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