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Elly, la profeta straniera e le relazioni pericolose di un periodo complicato

 
Pino Pisicchio

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Pino Pisicchio

Elly, la profeta straniera e le relazioni pericolose di un periodo complicato

Elly, bisogna riconoscerlo, non ha avuto il beneficio della lunga «luna di miele» che gli italiani hanno concesso a Giorgia Meloni, che peraltro se l’è scelta come competitor, impostando una solidarietà di genere inusuale quanto interessante

Domenica 24 Marzo 2024, 13:42

Non dev’essere così facile per una ragazza di trentanove anni, di buona famiglia e di orizzonti transoceanici - che guardando a Washington da un cantone svizzero per poi tornare a scrutare l’Italia dall’Emilia Romagna e ancora spiccare il volo fino al parlamento di Bruxelles, planando in finale sullo scranno del Nazareno - sentirsi obbligata ad adattarsi alla politica del cicaleccio così in voga nel provincialissimo recinto italiano. Il punto è che questa narrazione rappresenta, a partire dall’Unità d’Italia, il nutrimento del discorso pubblico in mancanza di contenuti più sostanziali.

Questo Elly Schlein l’ha dovuto capire subito, a ridosso dell’originale chiamata alla cabina di comando del PD come profeta straniera, in modalità primarie aperte, dopo l’investitura di Bonaccini da parte dei piddini tesserati.

Elly, bisogna riconoscerlo, non ha avuto il beneficio della lunga «luna di miele» che gli italiani hanno concesso a Giorgia Meloni, che peraltro se l’è scelta come competitor, impostando una solidarietà di genere inusuale quanto interessante. Fin dall’inizio la segretaria democrat ha dichiarato la sua visione politica, più sovrapponibile a quella liberal di impianto anglo-saxon metropolitano, piuttosto che a quella operaista e nazionalpopolare della tradizione piddina: questo ha generato un’onda scettica se non addirittura ostile che l’ha circonfusa su temi sensibili, come il forte impegno sui diritti civili, da cui i media, la satira politica e i giornali di destra hanno estratto ed enfatizzato le questioni di genere. Sul piano strategico, inoltre, la sua chiara propensione a farsi punto di raccordo delle sinistre, dai Cinque Stelle ai Verdi e Fratoianni, l’ha esposta da subito ad uno svuotamento del piccolo deposito «centrista» che comunque continuava a frequentare quello spazio nel solco dei Letta e dei Gentiloni.

L’anno di governo del Pd è stato piuttosto travagliato, con una sola piccola luce, quella della vittoria al foto finish in Sardegna della candidata grillina, risultato, peraltro, enfatizzato in modo sproporzionato anche per la ragione psicologica dell’essere apparso come la rottura di un incantesimo che aveva inanellato un rosario di inciampi o, peggio, di non ingresso in partita, nel senso della difficoltà di sfondare nel dibattito pubblico. Ma la magia della (lunga) notte sarda è stata prontamente infranta dal risultato abruzzese che ha ribadito l’impossibilità di trarre dal voto locale di una metà degli elettori un’indicazione di valore generale.

C’è più di un osservatore politico che prevede, scrivendolo o solo sussurrandolo, una scadenza a giugno o giù di lì dell’avventura di Elly alla segreteria del PD, per un risultato fiacco che potrebbe scatenare una resa dei conti tra le correnti interne, quelle stesse che benedirono il suo avvento. Il PD raccolse nel 2019 alle europee un 22,7 % che oggi, se fosse riacciuffato, rappresenterebbe un valore di tutto rispetto. Il 2019 fu l’anno di Salvini al 34,3 e della Meloni al 6,4 e Renzi non aveva ancora fondato il suo Italia Viva (avvenne tre mesi dopo le elezioni): anni luce fa. Non abbiamo capacità divinatorie e, peraltro, se l’affluenza al voto dovesse ancora ridursi, diventerebbe molto difficile fare pronostici di senso.

Tuttavia il PD della Schlein, che persegue la strada di un’alleanza organica con il M5S di Conte, rischia, quale che possa essere il risultato elettorale, di non riuscire a proporsi come alternativa plausibile al centro- destra per tre ragioni fondamentali: la prima è che il ruolo di perno del «campo largo» viene inevitabilmente consegnato al partner più instabile di tutti, che è, appunto il leader del movimento che fu di Grillo, un ruolo che fa a cazzotti con la vocazione all’ instabilità e al rifiuto di legami duraturi che è nel DNA del movimento, e che adesso si riempie anche di psicologie di un avvocato che fu tolto ai tribunali e fatto premier da un giorno all’altro e che ha visto come un insopportabile insulto la sua defenestrazione. La seconda è che, comunque, anche a metterci dentro i grillin-contiani, i voti non bastano per vincere. La terza è che manca ciò che ha consentito al PD di andare al governo in altri momenti: le cinquanta sfumature di centro.

La Schlein fa un’opera impegnativa nella re-union della sinistra/sinistra, ma all’appello manca quella terra di mezzo che fa vincere. Perché il centro- destra, ancorché ad egemonia meloniana, potrà rivendicare la legittimità di quel trattino preceduto dal lemma «centro» prima della caratterizzazione «destra». L’altra alleanza, almeno fino ad oggi no.

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