La prendiamo da lontano, dalla nostra psiche, che sempre più spesso, infatti, rimane assai lontana, quasi scissa da noi. Scriveva Freud in un libro fondamentale che metteva in relazione Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), che è molto difficile per l’uomo sopportare l’onere della libertà.
Libertà è incertezza, è precarietà, è assunzione di pesi sulle spalle, il più oneroso di tutti quello della scelta. Per evitare il «dolore della scelta» (e qui c’è eco di esistenzialismo danese) per molti il rifugio è quello dell’omologazione, del conformismo, dell’adesione allo tsunami del «così fan tutti». A nessuno, ovviamente, sfugge la «politicità» di questo ragionamento. Non a caso la chiave freudiana ha assistito l’interpretazione del rapporto tra masse e dittature nel secolo scorso.
Torna, però, ad essere di grande attualità nell’era digitale con la cloroformizzazione del popolo attraverso l’idolatria dello smartphone. Come può essere combattuta? Con l’esercizio di una cittadinanza attiva, che significa consapevolezza e responsabilità. Domanda: come si fa a diventare cittadini attivi? Questo lo dovrebbe insegnare la scuola, in combinato con la famiglia, cominciando fin dall’istruzione primaria. Ma lo fa? In teoria esisterebbe una legge recentissima, entrata in vigore nel 2020, che introduce l’Educazione Civica nelle scuole descrivendola come «una disciplina trasversale che interessa tutti i gradi scolastici, a partire dalla scuola dell’Infanzia fino alla scuola secondaria di II grado».
L’intento è persino entusiasmante: questo «metainsegnamento» coinvolgerebbe tre aree tematiche di straordinaria importanza, come la «Costituzione», intesa come diritto (nazionale e internazionale), legalità e solidarietà; come lo «sviluppo sostenibile», inteso come educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territori e «cittadinanza digitale». In sovrappiù la legge è corredata da linee guida per la sua applicazione concreta, che nella neolingua buro-scolastichese spiega come la disciplina va somministrata in modalità cross-over. Meglio di così... Se non fosse che l’intento disseminatorio, fondato sull’idea che l’educazione civica va infusa dappertutto, alla fine rischia di far svaporare l’insegnamento che, avendo una configurazione scontornata, piuttosto che restare immanente nell’impianto dottrinario di ogni docente, si perde nell’aere, per restare nell’aulico.
Troppi pezzettini di giudizio per l’Educazione Civica, che significano insignificanza. Sarebbe infatti interessante fare un giro nelle scuole d’ogni ordine e grado per sentire quanta «Costituzione» sia rimasta nella memoria degli studenti e quanta voglia di raccontarla si sia raccolta tra i docenti, peraltro non vincolati per contratto ad avere competenze specifiche in materia di diritto costituzionale insieme a quelle della propria disciplina concorsuale.
Ecco allora che un’altra occasione per avviare la costruzione di una cittadinanza consapevole rischia di andare perduta, perpetuando il paradosso dell’ignoranza dei nostri diritti e doveri fondamentali, quelli che fanno la nostra cittadinanza. Si pensi solo a questo: in Francia, Germania, Spagna, dove i percorsi scolastici incontrano l’area del diritto, quando uno straniero chiede asilo o la cittadinanza deve dimostrare di conoscere la lingua e i passaggi fondamentali dell’impianto costituzionale. Perché conoscere il catalogo dei diritti e dei doveri fa libere le persone e le mette nelle condizioni di non cadere nella trappola letale del conformismo. Lo sapeva bene Moro che nel 1958, da Ministro dell’Istruzione, introdusse la materia dell’Educazione Civica nelle scuole, destinata, dopo l’intuizione dello statista, ad un lungo periodo di dimenticanza.