In maniera incessante papa Francesco, all’Angelus, ha continuato a invitare il mondo alla pace, mentre si accendono, sempre più, focolai di guerra. In queste ultime ore ci sono stati i bombardamenti di Usa e Gran Bretagna nel Mar Rosso, nel tentativo di interrompere la minaccia degli Houthi nel nord dello Yemen. Ovviamente dietro questo c’è anche l’ansia americana di non veder compromessi gli affari relativi al commercio marittimo. Focolaio, però, genera focolaio; azioni di guerra generano altrettanta guerra e morti. La rappresaglia delle milizie filo-iraniane, ad esempio, non si è fatta attendere: la popolazione siriana e irachena ha subito attacchi anche sui civili. Le tensioni regionali si stanno accentuando in maniera rapida e pericolosa e, forse, solo dal cuore di Roma, da piazza San Pietro, arriva un autentico richiamo ad azioni sensate, mentre dalla Cnn, con toni decisamente opposti, il segretario della Difesa Austin fa sapere che questo è solo l’inizio della risposta delle forze americane. Biden continua la sua campagna elettorale, raggiungendo un notevole consenso in North Carolina e, nelle sue uscite pubbliche, ormai, ha sempre più accantonato la parola «pace». In questo scenario di tensione arrivano altre notizie allarmanti da Rafah, dove è stato colpito, proprio in queste ore, un asilo.
La guerra in Medio Oriente torna a distruggere le famiglie e l’infanzia, senza che il resto del mondo pretenda, ad alta voce, azione coscienziose. Dov’è la coscienza del mondo mentre l’Ucraina viene dimenticata e nuovi orizzonti di violenza ne prendono il posto? Che valore ha citare la coscienza in geopolitica? Qualcuno direbbe «nessun valore», ma è accettabile che la storia contemporanea sia ancora dominata dalla follia della guerra? Che senso ha, alla luce di queste considerazioni, promuovere «giornate per la vita», se - come individui - non ci sentiamo chiamati ad alzare la voce, tutti insieme, nelle più importanti piazze del mondo? Non può esserci alcuna giornata dedicata alla vita, mentre si volta lo sguardo dall’altra parte, dimenticando gli ultimi mesi di Gaza o gli ultimi violentissimi mesi nel Donetsk.
La settimana, intanto, si apre con la quinta missione di Blinken in Medio Oriente. Avrà un senso? In cinque giorni sarà in Arabia Saudita, in Egitto, in Qatar, in Israele e in Cisgiordania per parlare non solo degli ostaggi, ma anche dell’assistenza umanitaria a Gaza, dove, sempre più, Medici senza frontiere lancia appelli di sostegno. Il Wall Street Journal scrive che i capi di Hamas, eventualmente, sarebbero favorevoli a interrompere i combattimenti per alcune settimane, ma si è ancora lontani da un vero e proprio «cessate il fuoco». Questi sono i principali fatti con cui si apre il capitolo «esteri» di questa settimana.
In mezzo a questa confusione dilagante e agli affari delle armi, a cui tutti le potenze si votano implicitamente e che stanno ingrossando, sempre più, le scorte mediorientali, si dovrebbe allenare la coscienza con il recupero del senso della storia. Solo dalla lezione della storia può arrivare la soluzione sia per l’Ucraina che per la Palestina.
Soffermiamoci, per ora, sul capitolo israelo-palestinese. È utile richiamare alla memoria gli autorevoli saggi di Ilan Pappe, storico israeliano, il quale, negli ultimi anni, ha rivisto, in chiave non sionista, la storia di Israele a confronto con la pulizia etnica, in corso, in Palestina. Tanto in “Ultima fermata Gaza” che in “La retorica della coesistenza”, ha ricordato come non si può dimenticare la naturale contesa del territorio palestinese oppresso, proprio perché Gerusalemme, in primis, è la città santa di tre religioni ed è la casa di due popoli. Lo storico Pappe precisa che un nuovo sguardo sulla Palestina e su Israele non può non tener conto che i recenti dibattiti teorici su nazionalismo e modernità, in quelle aree, non sono validi per una situazione così intricata. È forse il tempo di fare i conti con il fallimento del processo di Oslo, che mise il blocco islamico davanti allo stesso dilemma del movimento islamico all’interno dello Stato di Israele. Queste posizioni dogmatiche hanno prodotto non una vera ricerca della pace, ma ulteriori faziosità. La storia e la cultura dovrebbero animare questi processi e non di certo i dogmatismi.
I presupposti di un futuro piano di pace, per essere almeno in parte realistici, dovrebbero finalmente tralasciare il presupposto che la pace è il ritiro di Israele nei confini del 1967. Chi ragiona in tal senso, a oggi, non ha ancora compreso che lo Stato di Israele ha un’elevata presenza di palestinesi e che, a Gaza, ci sono molti coloni ebrei. Da dove ripartire allora? Secondo Ilan Pappe occorre ripartire dall’idea che il dialogo diretto fra vittime della spoliazione e Stato autore della loro espulsione può essere condotto solo sotto una piena consapevolezza che la Palestina è, storicamente, il luogo della contaminazione e delle migrazioni.