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La memoria non è chiusa, il 27 gennaio sia patrimonio di tutti

 
Leo Lestingi

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Leo Lestingi

La memoria non è chiusa, il 27 gennaio sia patrimonio di tutti

Arriviamo al 27 gennaio ripetendo vecchie liturgie per difendere la memoria, o con l’idea che quella memoria debba servire proprio ad evitare che accada ciò che sta accadendo?

Sabato 27 Gennaio 2024, 14:00

Come siamo arrivati a celebrare quest’anno la Giornata della memoria, ci si domanda da più parti e da diverse prospettive. Già l’anno scorso ci si domandò se ciò che stava accadendo alle nostre frontiere, con la guerra russo-ucraina dentro i confini dell’Europa, non avesse cambiato la natura e l’obiettivo della memoria di quell’altra guerra, che ci aveva devastato 80 anni fa.

Quest’anno, poi, con il conflitto scatenato da Hamas e la dura risposta di Israele, non sono pochi coloro che pensano che gli ebrei farebbero meglio a starsene zitti, paragonando Gaza alla Shoah, in una ripresa dell’antico argomento (che risale, più o meno, alla guerra del Libano del 1982) delle vittime che si trasformano in carnefici.

Dall’altra parte, emergono nel mondo ebraico soprattutto italiano voci che propongono una sorte di «sciopero» da parte ebraica della Giornata: sembra che tutto il mondo sia contro gli ebrei, come il 7 ottobre e le successive reazioni hanno dimostrato; una riproposizione, alla luce dell’attacco di Hamas, della teoria dell’«eterno antisemitismo», che si sperava spazzata via dalle complessità della memoria e della storia.

Ma queste opposte posizioni partono, comunque, da due presupposti semplificatori e pericolosi. Il primo è che un movimento terrorista quale è Hamas si identifichi con tutti i palestinesi, e che dall’altra parte la politica dell’attuale governo di Netanyau sia non solo espressione dell’opinione unanime di Israele, ma anche di quella altrettanto unanime degli ebrei della diaspora, e che quindi questa guerra sia in realtà uno scontro di civiltà fra arabi e ebrei. Ma il rischio maggiore di queste due opposte posizioni è quello da parte degli uni di considerare la memoria della Shoah come un fenomeno solo ebraico, una proprietà degli ebrei, destinata solo a loro: una memoria chiusa in sé stessa, che rifiuta di aprirsi al mondo, che magari si ammanta del suo ruolo di vittima per negare altre vittime...

Ma a quale scopo? Risarcirli dei milioni di morti, forse; ma un risarcimento che con le guerre di Israele sembra essersi esaurito. E invece una celebrazione come quella del 27 gennaio nasceva e nasce guardando a tutti, e fra l’altro anche alle altre vittime della guerra di Hitler: per dare un segnale al mondo che la memoria della Shoah è di tutti, per insegnare a tutti ad evitare altri genocidi, razzismi, antisemitismi. E il fatto che finora non ci sia riuscita, che i genocidi e i crimini di guerra abbiano continuato a succedersi davanti ai nostri occhi troppo spesso distratti, non annulla questo impegno: anzi, lo rende più urgente.

Arriviamo al 27 gennaio, insomma, ripetendo vecchie liturgie per difendere la memoria, o con l’idea che quella memoria debba servire proprio ad evitare che accada ciò che sta accadendo, è accaduto molte volte nel Dopoguerra e continuerà ad accadere se non vi poniamo riparo? A cosa serve, dunque, la memoria? Ad evitare che ciò che è successo non si ripeta «mai più» o a far memoria delle vite perdute, dei loro nomi e volti? Certo, nessuno potrebbe negare l’importanza di questa memoria volta a riconoscere le vittime, ad impedire che siano dimenticate: ne siamo consapevoli quando ci soffermiamo sulle cosiddette «Stolpersteine», le pietre d’inciampo (e vorremmo che fossero collocate anche da noi…), a leggere nomi e ricostruire storie e volti, con emozioni sempre rinnovate.

Ma è sufficiente? È per questo soltanto che gli ormai pochi superstiti della Shoah hanno assunto sulle loro spalle il peso doloroso del ricordo, sono andati a parlare a sempre nuove generazioni raccontando e testimoniando? O è anche per evitare che succeda di nuovo, riconoscendo i sintomi del male e combattendoli prima che sia troppo tardi? I cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nel mondo non sono stati senza conseguenze sulla nostra percezione del passato e dunque anche sulla nostra memoria della Shoah. C’è una stanchezza, un affievolirisi anche di interesse verso quella storia. Ci si avvicina al momento previsto dalla stessa Liliana Segre in cui la Shoah sarà ridotta a due righe sui libri di storia. Molti fattori vi contribuiscono: il fatto che la costruzione dell’Europa che si era fondata su quella memoria, ne aveva raccolto l’eredità, l’aveva trasformata nel pilastro del suo rifiuto del razzismo, del nazionalismo, dell’antisemitismo; e non a caso il 27 gennaio è ancor oggi l’unica ricorrenza civile comune in tutti i Paesi dell’Unione.

Ora il sovranismo dilaga in Europa, accompagnato dal suo seguito di razzismo, fascismo più o meno occulto, antisemitismo; l’aggressione russa all’Ucraina ci ripropone violazioni di diritti umani e fenomeni genocidiari che non erano stati totalmente assenti in Europa nei decenni successivi al 1945, ma che avevamo sperato, col rafforzamento dell’Europa e il crescere del diritto internazionale, di veder scomparire per sempre; razzi e bombe, poi, sostituiscono in Israele e a Gaza un dialogo che non c’è. Allora, come siamo arrivati al 27 gennaio?

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