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Questo non è un problema di «buoni» o «cattivi», ma di narrazione dei fatti

 
Dorella Cianci

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Dorella Cianci

Questo non è un problema di «buoni» o «cattivi», ma di narrazione dei fatti

E se è vero che non possiamo leggere i fatti con la logica di «una parte per il tutto», se è vero che i palestinesi sono i primi imbrigliati nelle logiche violente di Hamas (che detesta perfino l’archeologia), è anche vero che non possiamo eludere le ragioni di Hamas quando menzioniamo la causa palestinese

Mercoledì 11 Ottobre 2023, 12:59

Siamo nei tempi dell’affastellamento delle notizie estere, infatti – mentre abbiamo, sempre più, l’impressione di un senso di fastidio occidentale verso il protrarsi della guerra in Ucraina - abbiamo anche tentato di rincorrere le voci dei profughi armeni, che pure, in queste ore di disattenzione, continuano a scappare. Abbiamo poi provato a rileggere, alla luce degli sbarchi in Italia, le migrazioni dal continente africano, dove, nel susseguirsi di sconvolgimenti politici interni, si tenta di manifestare l’implicito dissenso verso politiche egemoniche scarsamente concentrate sulle realtà locali. Mentre accadeva contemporaneamente tutto questo, ci si illudeva, però, che in almeno Medioriente la svolta fosse vicina.

Qualcuno sperava che in sei mesi potesse accadere ciò che non è accaduto in sessant’anni. Una parte dell’Occidente ha raccontato al resto del mondo l’inizio di una nuova “epoca”, nata sulla scia degli accordi di Abramo dell’agosto del 2020 tra Israele, Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti, poi estesi a Bahrein e Marocco che facevano, in parte, prevedere un dialogo tra il mondo arabo e quello israeliano. La dichiarazione congiunta aveva rappresentato un momento decisamente cruciale nel dialogo interreligioso, che, però, era stato visto dall’Iran come un tradimento nei confronti dei palestinesi. Mentre si pensava a una distensione dei rapporti con l’Arabia Saudita, altri scenari allontanavano la pacificazione in quella parte di mondo che, già coi Brics, in Sudafrica, ha visto costruirsi equilibri alternativi rispetto al malato centralismo occidentale.

Ora, dopo il vile attentato di Hamas, si continua a seguire la via più comoda, applicando canoni moralistici laddove la situazione andrebbe letta in maniera più realistica. E se è vero che non possiamo leggere i fatti con la logica di “una parte per il tutto”, se è vero che i palestinesi sono i primi imbrigliati nelle logiche violente di Hamas (che detesta perfino l’archeologia), è anche vero che non possiamo eludere le ragioni di Hamas quando menzioniamo la causa palestinese. Non ha nessuna importanza se queste ragioni le condividiamo o meno: quel che conta, in queste ore, sono i fatti e la violenza che potrebbe buttare, ancora una volta, dentro il calderone il Libano, con la sua popolazione già decisamente provata. E poi vi è l’Egitto e la delicatissima zona del Sinai. Ricordate il libro del critico letterario e poeta Franco Fortini, dal titolo I cani del Sinai, scritto nell’estate del ‘67, a ridosso della “guerra dei sei giorni”? Qualcuno ha detto che quello è un libro strano, un po’ autobiografico, un po’ politico, ma decisamente scritto coi nervi scoperti, contro «il diffuso e razzistico disprezzo antiarabo», contro «l’esaltazione della civiltà e della tecnica» incarnate, qualche volta, anche da Israele. Da queste pagine Jean-Marie Straub e Danièle Huillet trassero un film memorabile, che metteva dentro la grande storia universale molti aspetti particolari e personali, tentando di mettere a nudo le ipocrisie, che ancora esistono quando si parla di israeliani e palestinesi. E le ipocrisie tendono a manipolare alcuni fatti, oltre le azioni vili e deprecabili compiute, in queste ore, contro Israele. E quali sono i fatti che emergono poco? Ad esempio quello che ci ha raccontato Save the Children o Medici senza frontiere precisamente un mese fa, quando segnalavano violazioni gravissime dei diritti (che in queste ore si stanno decisamente acuendo). A causa delle restrizioni del governo israeliano sull’ingresso di cure mediche e farmaci, a Gaza, da anni, non si riesce a fare la chemioterapia. Alcune storie. Zeinab, che oggi ha nove anni, nei suoi primi tre anni di vita è stata sottoposta ad operazioni chirurgiche per curare lesioni ai nervi di una gamba. Gli interventi non hanno avuto successo e la sua famiglia ha cercato, per oltre un anno, di ottenere un permesso, affinché potesse uscire da Gaza con un caregiver per accedere alle cure. Non è stato possibile. Ha scritto Save the Children un mese fa: «Nonostante la percentuale di approvazione dei permessi per cure mediche sia aumentata quest’anno, ogni mese c’è una media di 60 bambini che necessita di cure fuori Gaza e le cui domande vengono lasciate senza risposta. Alcuni sono bambini disperatamente malati, che non hanno altra scelta se non lasciare Gaza per sopravvivere. Il blocco, che dura da 16 anni, sta avendo un impatto su ogni aspetto della vita dei minori, anche sulla loro salute fisica e mentale. Queste violenze e privazioni sistemiche devono finire!». Chi ascoltava tutto questo? Ecco le ipocrisie a cui accennava, in un tempo lontano, l’intellettuale Franco Fortini. Non è un problema di buoni o cattivi: è un problema di narrazione dei fatti.

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