Da qualche tempo Andrea Di Consoli va pubblicando su Facebook delle prose poetiche e io sono lì pronto a bermele tutte d’un fiato. Non avendo alcuna velleità di critico letterario, le leggo per puro piacere, per cercare di capire quale sia l’urgenza che spinge Andrea Di Consoli a usare uno strumento così immediato e pop quale Facebook. Di solito i poeti sono gelosi delle loro creazioni: finché non vengono sacralizzate nel libro le serbano gelosamente. Di Consoli no. Lui le butta lì appena sfornate, ne senti ancora il trambusto che le ha determinate, la rabbia, la dolcezza, l’orgoglio, il dolore.
Sono poesie forti, tutt’altro che ermetiche eppure con una forza espressionistica che ti lascia spiazzato. E non fai in tempo a metabolizzarne una che ne arriva un’altra. Ha fretta Di Consoli, non può perdere tempo, e la ragione qual è? A mio avviso, questa: Di Consoli sta rappresentando un mondo morente, se non già morto: la civiltà contadina del sud Italia. Appena può, Di Consoli lascia Roma dove vive da anni e torna nella sua Lucania, al suo paese, alla sua casa nel bosco, ai suoi eroi che popolano le sue prose poetiche. L’ultimo è Ciccolino, un commerciante di pecore e capre a cui hanno amputato una gamba. Un posto di primo piano è riservato naturalmente alla sua famiglia, alla propria storia personale.
Di Consoli si ritrae senza falsi pudori e il mondo che viene fuori attraverso i suoi occhi è netto: un mondo duro, aspro, dove i sentimenti si nascondono. Un Sud arcaico, agli antipodi di ogni modernità. Di Consoli racconta che nel 1990, appena decenne, passò l'estate nella falegnameria di Franco. «Erano estati lunghissime, e io stavo chiuso per mesi in quel grande / capannone di Piano Incoronata». Una volta per sfuggire al padre, fu mandato in casa da alcuni parenti, «E in questa casa venni a nascondermi quando fui sospeso da scuola per cinque giorni / e mio padre voleva uccidermi». Da adolescente per mantenersi si è dato da fare come cameriere andando su e giù per la Basilicata non senza rischi.
Insomma, una vita tutt’altro che facile, a cui tuttavia Di Consoli è attaccato con le unghie e con i denti, tanto che, a confronto, il resto della sua vita, scolora. «Cos'ho fatto in tutti questi anni invece di chiedere a mio padre le leggi della terra?». È sempre lì che si ritorna, Di Consoli, alla sua terra. E una sera, visitando uno zio ammalato annota: «Ci ritroviamo smarriti e scoperti in un silenzio impudico. / Sembra un momento triste, /e invece siamo felici, /perché nonostante tutto lo sappiamo ancora, /a cosa apparteniamo». Ecco l’àncora della sua vita: l’appartenenza, l’identità. È grazie a quella che Di Consoli può trovare uno scampolo di felicità e noi, col senno di poi, possiamo dire che sì, il garzone decenne del falegname ce l’ha fatta - è diventato una firma di punta di giornali e Tv. E questo non «nonostante» gli svantaggi di partenza, ma «grazie» a quegli svantaggi, lo snodo esistenziale dove risiede il motore della sua vita interiore, la sua forza primigenia.
Queste riflessioni mi sono tornate in mente qualche giorno fa, quando ho letto sulla Gazzetta un editoriale di Andrea Di Consoli sulla tragedia dei due operai ultrasessantenni morti sul lavoro a Monopoli. Cosa scrive Di Consoli? Dopo aver giustamente premesso che purtroppo, «per quanto le normative e i controlli possano essere stringenti ed efficaci, ci sono lavori dove è praticamente impossibile il rischio zero« e che «Il dolore dei famigliari dei due operai è atroce, e francamente mancano le parole per lenirlo almeno un poco», se la prende con «i professionisti della retorica», che «nel mentre ottengono qualche applauso, di fatto sclerotizzano la capacità generale di analizzare la realtà». E aggiunge «Fa male, la morte di questi due operai. Ma non erano vecchi. Stavano nella vita, avevano bisogno, lottavano ancora». Se pensiamo alla Francia messa a ferro e fuoco per una legge che porta l’età pensionabile da 62 a 64 anni, ritenendolo un attacco insopportabile al welfare, capite bene che Di Consoli si situa da tutt’altra parte. E alla base del suo pensiero vi è quel senso tellurico della vita fin qui sommariamente descritto che mal tollera limitazioni troppo invadenti.
Tornando alle sue poesie, parlando di sua padre che nonostante un temporale continua imperterrito a lavorare, Di Consoli scrive, «Sull'erta però mi volto, e vedo che continua a zappare con colpi stanchi e precisi, come un vecchio re che / deve comandare fino all'ultimo giorno». Ricapitolando.
Culto dei padri, rivendicazione della propria identità come valore irrinunciabile, affermazione del proprio sé non «a dispetto» ma «grazie» alle condizioni di partenza sfavorite – underdog direbbe qualcuno -, sospetto per le eccessive invadenze dello Stato nella vita degli individui. Se la destra va cercando protagonisti sulla scena culturale, e non solo, in Andrea Di Consoli ne ha trovato uno di valore. Con lui deve confrontarsi chi, come me, ha sensibilità diverse. Il confronto farà bene a tutti.