Mi pare di sentirli già i tromboni (e le trombone) esultare ancora per il doppio risultato: due donne, giovani, alla guida del Governo e del Pd e dunque, fiato alle trombe per le celebrazioni di un 8 marzo che più festante non potrebbe essere nella società dell’apparire. Mi pare già di vedere strapazzate in ogni dove le incolpevoli mimose, passate da mani maschili in quelle femminili. Appizzando le orecchie sento pure le voci di quanti, nell’annacquamento e nell’incasinamento pazzesco dei generi, vorrebbero eliminare feste inneggianti a una sola identità. Per non parlare delle truppe femminili in tacco 12, silicone e leopardamenti vari che, purtroppo, ancora hanno segnato in agenda all’8 marzo un patetico «pizza tra donne».
Sarà per questo che, pur avendo in tempi lontanissimi, puntato i piedi e sognato e perseguito cose che voi ragazze del 2023 non immaginate nemmeno – tipo voler fare un mestiere considerato, fino ad allora, per soli uomini- l’8 marzo è, diventato, per me, da molti anni, una festa inutile.
Tuttavia fu bellissimo quell’8 marzo che arrivò dopo il 1996, con la legge 66. Pensate: sono passati pochi decenni da quando, in Italia, si è affermato il principio per cui lo stupro è considerato e punito quale crimine contro la persona, non contro la morale pubblica, come veniva considerato sino ad allora. La quale morale pubblica, nel nostro Paese, sappiamo bene viene spesso prostituita a seconda delle necessità e, sino ad allora, anche per aggiustar sentenze. Ricordo con grande emozione quanto le poche donne presenti in Parlamento, in quegli anni, chiedessero ad una voce sola che quella legge riguardante il più odioso dei reati fosse cambiata.
Sarebbe un gran bell’otto marzo se le 186 donne attualmente presenti in Parlamento, diventassero una voce sola nel chiedere, pretendere l’applicazione – per legge- dell’articolo 37 (che garantisce il principio di parità salariale fra uomo e donna) della nostra meravigliosa Costituzione. La quale Costituzione, che tutti a parole amano e declamano e citano riempendosene la bocca , è un po’ come la morale pubblica di cui sopra: anche lei a seconda delle necessità e degli aggiustamenti etc etc.
Ecco: questa potrebbe essere una battaglia giusta per dare un senso non solo celebrativo all’8 marzo. Eliminare quel 15% di disparità - secondo alcuni indicatori anche di più - nel guadagno tra un uomo e una donna. Disparità che cresce se la donna ricopre – come vivaddio sempre più spesso accade - ruoli apicali o manageriali: in Italia una manager guadagna mediamente il 23% in meno di un pari grado uomo. Il che, scavando un po’, suona come il vecchio adagio che ci vedeva meglio-a casa-a crescere figli- e a cucinare. Cioè: non-ne-vale-la-pena. Quelle paroline che, alle ragazze degli anni 70, facevano salire il sangue agli occhi e la forza di scendere in piazza, sfidando consuetudini e tradizioni centenarie, sfottò e insulti, qualche volta persino manganellate. Ecco: se un 8 marzo può avere un senso, oggi che molti passi sono stati compiuti, è darsene altri ancora. Senza sventolii di mimose che, ora più di prima, è giusto rimangano attaccate all’albero. Senza la paccottiglia rituale che accompagna queste feste. Senza farsi distrarre da cosa e come declinare i nomi delle professioni. E se le vecchie ragazze degli anni ’70 riuscissero -ormai nonne delle giovani donne di domani- a tracciare ancora qualche percorso impervio, qualche passo insidioso da compiere, con quel sacro fuoco che le accendeva e le rendeva appassionate: ebbene, il tempo non sarebbe trascorso invano e l’8 marzo sarebbe ancora festa.