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Guerra civile permanente: l’Occidente dica addio ai suoi bei sogni di pace

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Guerra civile permanente: l’Occidente dica addio ai suoi bei sogni di pace

Le vicende brasiliane e quelle americane del 2021 rivelano il nuovo conflitto

Giovedì 12 Gennaio 2023, 14:23

Ci sono Stati americani, come quello di New York, in cui l’aborto è libero fino al quinto mese, e addirittura possibile fino al nono, ed altri, come il Montana o l’Iowa, in cui è totalmente illegale, cioè vietato in qualunque momento della gravidanza e per qualsiasi ragione. Su questo e su altri temi l’America si scopre Paese diviso in due. Pro o contro l’aborto, le periferie contro il centro, i bianchi contro i neri, le ricche città costiere contro le più malmesse contee dell’entroterra. Divaricazioni, spaccature che si articolano in una miriade di dorsali diverse ma che spesso si raggrumano intorno a candidati simbolo delle proprie crociate.

Ne viene fuori l’assalto dei sostenitori trumpiani a Capitol Hill nel 2021 che, poi, è vicenda gemella e anticipatrice delle recentissime scosse golpiste che stanno attraversando il Brasile, anch’esso spaccato tra i supporter conservatori dell’uscente Bolsonaro e quelli progressisti del neoeletto Lula. Manifestazioni macroscopiche e visibilissime di un fenomeno che carsicamente attraversa l’intero Occidente, anche alle nostre latitudini, rivelando la forma di conflitto ormai più diffusa del nostro tempo: la guerra civile permanente.

Tre sono gli elementi che la caratterizzano. Innanzitutto, lo scontro non possiede linee di faglia geografiche, cioè non si semplifica nelle vecchie contrapposizioni in stile guerra civile americana tra un Nord industriale e modernista e un Sud agricolo e tradizionalista. Meglio così, naturalmente, perché si scongiura l’opportunità di un conflitto territoriale, anche se quest’ultima opzione semplifica le cose, almeno a livello di comprensione. Qui , invece, tutto si svolge all’interno dei diversi Paesi e dilaga ovunque: nel dibattito politico, certo, e in quello televisivo, ma anche a scuola, nei campus, per strada, sui social. Con un elemento a far da collante: la violenza fisica e verbale. Sono certamente violenti, inutile dirlo, i suprematisti e i fanatici religiosi. L’ultradestra, insomma, nelle sue derive più grottesche. Ma anche chi muove da posizioni, come suol dirsi, sovraniste, pur senza assalti all’arma bianca, reca con sé un pensiero tranciante, spesso furioso contro le bandiere del campo avverso. E tuttavia sono altrettanto violente, anche se in guanti di velluto, le minoranze progressiste che pure passano per i «buoni» della storia.

Vegani, gender fluid, animalisti, ecologisti, barricaderi dei diritti civili: chiedete loro un’opinione sull’altro da sé e la risposta sarà una puntuale «mostrificazione» del portatore di idee diverse, di solito un fascista o, nella migliore delle ipotesi, un residuato dell’Alto Medioevo ancora in circolazione. La cui eliminazione (dal dibattito), come da antichi slogan, non è reato. Non casualmente la cancel culture, avanguardia dei porporati della nuova Inquisizione, è innanzitutto cancellazione di persone - dai media, dalle accademie, dai palcoscenici pubblici - e poi, solo in un secondo tempo, di monumenti dalla piazze e di opere di pensiero dai circuiti culturali.

Il terzo elemento, infine, è la tendenza dei diversi conflitti, polverizzati nei mille fronti del quotidiano, a trovare in un leader, spesso outsider, una sorta di sintesi politica ed emozionale. Il vertice alto di un triangolo tenuto in piedi da mille spinte diverse. La questione si mantiene post-ideologica, naturalmente, ma si trasferisce al piano di sopra, vestendo l’abito nobile della sfida tra visioni del mondo a cui si fatica a dare un nome appropriato. Con i risultati che in America e Brasile sono cronaca e forse già Storia. Siamo immersi in questo mondo, dunque, a livelli diversi a seconda delle latitudini. Ma se l’America è l’anticipazione fatta carne di tendenze che, poi, fatalmente approdano anche nella vecchia e attardata Europa, c’è da preoccuparsi. E parecchio.

È, in fondo, la terza evoluzione del conflitto in un Occidente che aveva attraversato il Novecento con delle linee di faglia chiare, ideologiche (democrazie, nazifascismi, comunismo) o politico-geografiche (l’Est contro l’Ovest). E tutto quanto accadeva all’interno dei singoli Stati era, a conti fatti, solo un riflesso della grande contesa, una riproposizione in sedicesimo della situazione generale. Poi, con l’irruzione della globalizzazione, i contrafforti cadono e le certezze pure. La società si fa liquida, l’Occidente diventa una categoria dello spirito, più che un luogo geografico, e pervade tutto al punto da far annunciare ai suoi aedi la fine della storia, un po’ come quello che dal balcone urlava di aver abolito la povertà. Non era finito nulla, come ovvio. Né la storia né, tanto meno, la povertà. Semplicemente la guerra aveva cambiato identità e s’era fatta «molecolare» per riprendere la vituperata intuizione di Hans Magnus Enzensberger nel suo pamphlet Prospettive sulla guerra civile: sciolti i vincoli ideologici e resi porosi quei confini che separavano il «noi» dal «loro», lo scontro da collettivo s’è fatto individuale, inaugurando l’opaca stagione dei lupi solitari e delle monadi impazzite, dagli stragisti alla Breivik (il norvegese che nel 2011 uccise 77 persone) ai giovani arruolatisi sotto le bandiere del terrorismo islamico. Esempi di fanatismo mal tinteggiato, ma al fondo nichilismo puro, capace, scrive Enzensberger, di trasformare «ogni vagone della metropolitana in una Bosnia in miniatura».

Anche quella stagione, però, si riscopre assai declinante. La partita è cambiata. Non è più un duello fra giganti né un conflitto molecolare. È una guerra civile permanente che non può essere disinnescata da trattati né da eserciti. Può essere solo attraversata perché è segno dei tempi e cifra di un’epoca andata a letto con il sogno del pilota automatico e svegliatasi con l’assalto ai Palazzi del proprio inverno.

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