È stato approvato il Meccanismo di adeguamento delle emissioni importate - CBAM il suo acronimo inglese - vale a dire l’introduzione di una Carbon Border Tax, un’imposta sui prodotti ad alta intensità di CO2 che entrano nell’Unione Europea.
La tassa ha un triplice obiettivo. Innanzitutto, quello di promuovere il principio per cui «chi inquina deve pagare». In secondo luogo, di evitare la concorrenza sleale da parte di produttori localizzati in Paesi meno attenti all’ambiente, vanificando la spinta in Europa verso processi di produzione più green. Infine, di rendere più complicato il «carbon leakage» ossia lo spostamento delle emissioni nocive in aree geografiche meno eco-responsabili.
Nel concreto il meccanismo consiste in un obbligo, in capo agli importatori dell’UE, di acquistare certificati di emissione carbonio (i cosiddetti «Carbon credits») corrispondenti al prezzo del carbonio che sarebbe stato pagato se i beni fossero stati prodotti secondo le norme dell’UE in materia di prezzi del carbonio. Se il produttore extra-UE può dimostrare di aver già pagato nel suo Paese un prezzo per il carbonio utilizzato, la tassa per l’importatore UE è uguale a zero.
Con la CBAM non sarà più possibile avvalersi di un fornitore non-Ue più inquinante senza incorrere nella tassa (sovrapprezzo), e i produttori extraeuropei non potranno inondare il mercato di prodotti meno cari ma realizzati con meno attenzione per l’ambiente. Dovrebbe ad esempio consentire ad una acciaieria come l’ex Ilva di Taranto – in piena transizione ecologica – di non preoccuparsi della concorrenza da parte di produttori di acciaio localizzati in paesi dove le restrizioni ambientali sono molto minori e quindi i costi finali ridotti.
Per garantire certezza giuridica e stabilità, il Meccanismo sarà introdotto gradualmente dall’ottobre 2023 e inizialmente si applicherà solo a un numero selezionato di prodotti che presentano due problematicità congiunte: hanno un elevato contenuto di CO2 incorporata nei processi produttivi, come acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio ed elettricità ma anche idrogeno e prodotti trasformati, come viti e bulloni e articoli simili in ferro o acciaio; quindi, la loro produzione è ad alto rischio di rilocalizzazione, proprio per evitare il rigido percorso di decarbonizzazione in corso nella UE.
L’introduzione graduale della tassa è finalizzata a permettere alle imprese di adeguarsi e minimizzare l’impatto sul commercio, ma anche per creare consapevolezza negli operatori e comportamenti più consapevoli, secondo la strategia della «spinta dolce» o «nudging». La sua approvazione in sede europea non è stata tuttavia facile, per la possibilità che la Carbon Border Tax fosse assimilata a un dazio protezionistico, sebbene focalizzata unicamente sul differenziale di trattamento delle emissioni. I meccanismi di aggiustamento delle emissioni di carbonio alle frontiere sono già in vigore in alcune regioni del mondo, ad esempio in California, dove viene applicato un aggiustamento a determinate importazioni di elettricità. Alcuni Paesi, come il Canada e il Giappone, stanno poi progettando iniziative simili.
La tassa colpirà soprattutto prodotti globali, che provengono principalmente da Paesi da cui l’Europa importa in quantità, come la Russia, e a seguire, nell’ordine, Cina, Turchia, Regno Unito, Norvegia, Ucraina, Svizzera, Corea del Sud, India e gli Stati Uniti. Secondo le stime interne della Commissione i prodotti russi potrebbero generare una quota considerevole dei 9 miliardi di euro attesi come entrate complessive di questa misura, sempre che le sanzioni per la guerra in Ucraina consentano la ripresa normale dei traffici.
Di fatto, l’accordo apre la strada per istituire la prima tassa al mondo, per un mercato grande come quello dell’Europa, sui beni ad alta intensità di carbonio che passano i suoi confini. Il significato di politica ambientale globale della scelta non è di poco conto.