Vandali, teppisti, in galera. Il Senato si costituirà parte civile nel processo che si aprirà a maggio contro gli attivisti di Ultima Generazione che hanno gettato vernice lavabile sul portone di Palazzo Madama. È solo l’ultimo atto di una serie di azioni di disobbedienza civile che il gruppo porta avanti da mesi. Blocchi stradali e incursioni nei musei per attirare l’attenzione sull’urgenza di intervenire contro la crisi climatica. Tutte azioni che - diciamo la verità - non hanno ottenuto grande visibilità. Hanno fatto anche 26 giorni di sciopero della fame e non se li è filati nessun parlamentare, tranne Eleonora Evi (Alleanza Verdi e Sinistra).
Ora che hanno puntato ai Palazzi del Potere gli abbiamo tardivamente concesso un palcoscenico. Ci stanno costringendo a prendere posizione. E io la prendo volentieri. Non devono starmi simpatici, non faccio il tifo per loro nello specifico e non mi interessa nemmeno impartire consigli. Voglio che la riscrittura del nostro sistema economico in chiave sostenibile diventi la nostra urgenza, anche giornalistica, che la nostra consapevolezza di quello che rischiamo se non agiamo e dei danni che già paghiamo a causa dell’inquinamento prodotto, aumenti.
Si parla male e poco dell’emergenza climatica. In tv c’è ancora chi invita nei dibattiti in prima serata i negazionisti dell’origine antropica del riscaldamento globale. È quasi certo che non si potranno rispettare gli obiettivi di Parigi, se manteniamo gli attuali ritmi di produzione di CO2. Il carbone, il più inquinante tra i combustibili fossili, resta anche il più economico, e non c’è la reale convinzione ad abbandonarlo definitivamente in tempi rapidi. Così come tutte le altre produzioni inquinanti basate su fonti fossili e caratterizzate da emissioni diffuse. Si declassa ancora ad argomento di serie B il tema del rapporto tra inquinamento e salute. È uno scenario condiviso dal 90% della comunità scientifica mondiale, supportato da dati e studi che si confermano validi da decenni.
Coloro che negano queste evidenze, invece, non hanno mai depositato uno straccio di prova a sostegno delle loro tesi negazioniste. Diciamo la verità: mi domando come sia possibile che l’Italia arrivi così tardi a queste forme di attivismo. Quando nel 2018 sono volata a Londra per conoscere Extinction Rebellion (Xr), un movimento ambientalista non violento, avevo letto solo un articolo su «The Guardian». Migliaia di persone quell’anno bloccarono il centro di Londra. I manifestanti si accamparono in strada per dieci giorni. Si incatenarono alle grate del Parlamento inglese. Occuparono fisicamente le strade, i ponti e le piazze, con i loro corpi, sdraiandosi per terra, incollandosi le mani all’asfalto. Mi sembrava di essere sbarcata su Marte. Perché in Italia queste urgenze erano inesistenti? «Non ho precedenti penali e mi ritengo una cittadina responsabile. Ma in questa situazione, da coscienziosa protettrice della Terra, sento che la cosa da fare per tutelare il nostro pianeta, la nostra vita e il futuro dell’umanità sia agire in maniera pacifica con Extinction Rebellion». Viv Talvo, una manager di sessantatré́ anni, si difese così alla sua udienza preliminare dichiarandosi colpevole davanti ai giudici della Corte di Westminster.
Sì, è vero, oggi gli attivisti inglesi stanno ripensando le forme della protesta e sono divisi. Hanno deciso recentemente di «abbandonare momentaneamente le azioni di disturbo pubblico come tattica primaria. Sinora sono state utili a lanciare l’allarme, ma crediamo che sia necessario anche far evolvere le nostre strategie». Ma sono giunti a questa decisione dopo più di quattro anni e sarebbe sbagliato (loro non lo fanno, siamo noi che nel trasporre la notizia polarizziamo e strumentalizziamo) dimenticare che è grazie alla loro disobbedienza civile del 2018 che hanno costretto il Parlamento inglese a dichiarare lo stato di emergenza per la crisi climatica diventando il primo paese al mondo a farlo. La mozione che fu approvata di fatto non obbligava legalmente il governo ad agire, ma chiedeva di «azzerare le emissioni nette entro il 2050» e di presentare proposte per un’economia senza sprechi e sostenibile per l’ambiente.
Già quattro anni fa - inoltre - tra gli attivisti inglesi era vivo il dibattito interno su quali forme dare alla protesta.
«Iniziamo cambiando il nostro stile di vita!».
«Ma se parliamo solo dei nostri stili di vita finiremo per perdere tempo».
«Agiamo entro i prossimi dieci anni, o non saremo più in grado di arrestare il cambiamento climatico!».
«Dovremmo concentrare le nostre proteste, direttamente contro il governo».
«Per me l’importante è non esagerare quando protestiamo».
«Però dobbiamo lasciare un segno: io sono pronto a farmi arrestare per azioni non violente ma di disobbedienza». Questo confronto avveniva sotto l’occhio vigile dei mezzi di informazione che lo amplificava e ne riconosceva la portata storica. Insomma ho l’impressione che dibattere sulla teoria aiuti anche a definire il metodo, a migliorare gli obiettivi, ad aumentare la consapevolezza pubblica. Smettiamola di essere finti, perbenisti: sostenere che esista una protesta senza disagio è pura ipocrisia. Poi certo esistono cause per cui vale la pena protestare e altre no: la crisi climatica per me è una giusta causa. È un’emergenza. E se vogliamo colmare il ritardo culturale della nostra società il giornalismo si faccia carico di approfondimenti quotidiani su questo tema in prima pagina. L’inquinamento atmosferico è responsabile di 7 milioni di decessi ogni anno, rappresentando così la quarta causa di morte a livello globale. Mostriamo i volti delle vittime.