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Da hiroshima non abbiamo imparato nulla

Da hiroshima non abbiamo imparato nulla

 
Rossana Gismondi

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Rossana Gismondi

Da hiroshima non abbiamo imparato nulla

Quando gli americani lanciarono la prima bomba atomica, il 6 agosto del 1945 su Hiroshima in Giappone, il mondo non aveva l’esatta idea di che cosa fosse un’arma nucleare

Mercoledì 07 Dicembre 2022, 13:41

Quando gli americani lanciarono la prima bomba atomica, il 6 agosto del 1945 su Hiroshima in Giappone, il mondo non aveva l’esatta idea di che cosa fosse un’arma nucleare. E le autorità americane subito dopo, non dettero informazioni sui dettagli, sulle conseguenze per la popolazione sopravvissuta all’esplosione nucleare.

Sulla facilità e sulla rapidità con cui la bomba avesse portato morte e distruzione, non «su una base dell’esercito giapponese» come gli statunitensi sostennero in un primo momento, ma su una città – Hiroshima - di 318mila abitanti. In una recente e dettagliata ricostruzione di quei giorni pubblicata da The Guardian a firma di Daniel Immerwahr, si legge che molti di quegli abitanti «si erano dissolti nello sbuffo di una nuvola a forma di fungo» ma anche che moltissimi stavano morendo tra atroci sofferenze per effetto delle radiazioni. Se molti americani prima e il resto del mondo dopo hanno potuto sapere la verità sullo scoppio di una bomba atomica, terribile e inimmaginabile sino ad allora, lo si deve al giornalista americano John Hersey che pubblicò sul giornale New Yorker il resoconto di quanto stava accadendo in quei mesi ad Hiroshima.

«Uno dei più importanti articoli mai scritti» scrive il giornale britannco. Per farlo Hersey usò una tecnica professionale di straordinaria efficacia, raccontando la storia di sei sopravvissuti. Tra loro, un pastore metodista corso in aiuto dei suoi vicini di casa, straziati ma ancora vivi e coscienti. Mentre afferrava una donna «enormi pezzi di pelle scivolarono via come un guanto. L’uomo - scriveva il giornalista americano Hersey - era così nauseato che si sedette un attimo mentre doveva continuare a ripetersi che quelli erano esseri umani».

La rivista andò esaurita e gli articoli vennero stampati in un libro che vendette milioni di copie. Quel testo fu in seguito tradotto su giornali di tutto il mondo e letto da milioni e milioni di persone: «Nessun’ altra pubblicazione del novecento negli Usa - ha scritto la storica del Giornalismo Kathy Roberts Forde - ha avuto una diffusione così grande».

Grazie a quell’articolo, a ciò che innescò nella pubblica opinione non soltanto americana, gran parte della popolazione mondiale comprese cosa comportasse realmente lo scoppio di una bomba atomica. La pubblica opinione prese coscienza dell’indicibile, in un’epoca in cui internet e i social non erano neppure immaginabili.

Sono trascorsi 77 anni da quel giorno di agosto: mi chiedo perché non abbiamo imparato nulla. Mi domando se è solo colpa del tempo che passa, delle generazioni che lentamente scompaiono, della memoria che non è stata rinnovata con vigore. Mi chiedo se, per propria parte, il Giornalismo che rappresenta, parla, scrive, commenta, resoconta, analizza, di guerra nucleare - come se trattasse di pratica prevedibile di una guerra già orribile di per se stessa - non abbia una responsabilità enorme nella mancata rappresentazione del «dopo» che attenderebbe il mondo intero.

Una sorta di ignoranza, dimenticanza, rassegnazione che ha sdoganato l’indicibile. Quando invece, quell’indicibile andrebbe rappresentato con le immagini, con le parole, con la narrazione: con qualsiasi mezzo utile a sensibilizzare le coscienze. Certo: le bombe non le fanno esplodere i giornalisti, le guerre non le decidono loro. Ma possono contribuire, con la loro funzione, a far smuovere coscienze, piazze, masse. Avremmo tutti bisogno di leggere ancora «Uno degli articoli più importanti mai scritti»: se fosse scritto «prima» che l’indicibile accadesse significherebbe che avremmo imparato la lezione. Ne dubito, ma lo spero: come tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

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