Comincia oggi la collaborazione con la «Gazzetta» di Gaetano Quagliariello, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Luiss-Guido Carli e presidente della Fondazione Magna Carta
L’Italia ha finalmente un governo sorretto da una maggioranza stabile. E al momento non è neppure pensabile, nell’attuale legislatura, un’altra maggioranza al di fuori di questa. Ciò non significa tuttavia che il sistema politico abbia trovato una sua definizione.
Le elezioni le ha vinte il centro-destra. E questo è un fatto. Incontrovertibile. È però altrettanto certo che la compagine dei vincitori del settembre 2022 abbia poco a che fare con la coalizione la cui entrata in scena, nel 1994, inaugurò la cosiddetta Seconda Repubblica. E ciò per diverse ragioni. Innanzi tutto perché il centro-destra originario si identificava con Silvio Berlusconi: è stata la sua epifania a crearlo e il suo partito a rappresentarne il fulcro. In secondo luogo perché in quella coalizione il centro era assai più forte della destra. Infine perché quella squadra, sebbene priva di amalgama (soprattutto dopo la scomparsa di Pinuccio Tatarella), era pur sempre qualcosa di diverso da una mera sommatoria di partiti.
Tutto questo non c’è più. Appartiene al «mondo di ieri». Oggi una giovane leader di destra, primo premier donna nella storia della Repubblica, si trova alla guida di un partito che detiene una forza elettorale pari a quasi il doppio della somma dei suoi recalcitranti alleati.
Per Giorgia Meloni tale condizione rappresenta, al tempo stesso, una forza e un problema. Le ha certamente consentito nell’immediato di limitare le intemperanze dei suoi partner. In prospettiva, però, le pone la questione del rapporto con l’elettorato moderato. È difficile infatti pensare che l’emorragia dei suoi alleati più centristi possa arrestarsi. E sarebbe ancor più arduo tentare una vittoria in solitaria.
Per poter conservare quanto conquistato, dunque, il nodo dei moderati diventerà cruciale. Giorgia potrà provare a scioglierlo in vari modi: aprendo il suo partito per trasformarlo in qualcosa di totalmente nuovo; puntando su una evoluzione del sistema in senso semipresidenziale; favorendo la nascita di un nuovo junior partner che, a differenza di Lega e Forza Italia, non abbia solo alle spalle il proprio glorioso futuro. L’unica cosa che non sarebbe saggio fare è negare che il problema esista.
A sinistra il negazionismo potrebbe provocare danni ancora maggiori. Il Pd si è auto-imposto una sfibrante via crucis per la scelta del nuovo segretario. Ma non è solo con gli assetti interni che dovrebbe fare i conti. Trovarsi in piazza, nello stesso momento, con i «pacifisti» a Roma e con i «filo-ucraini» a Milano è la metafora perfetta del suo dilemma. Il Pd dovrà innanzitutto scegliere tra «alleanza riformista» e «deriva populista», abbandonando la presunzione fatale di poter tenere tutto insieme. In caso contrario saranno i fatti a scegliere per lui. Domani in Italia, così come ieri in Francia, il partito storico della sinistra si potrebbe ridurre a quantité négligeable. Irrilevante. Mentre un’altra sinistra estrema e populista - più simile a quella di Mélenchon, per intenderci - è pronta a conquistare la guida dello schieramento. Giuseppe Conte, d’altro canto, è passibile delle più gravi imputazioni sul piano dei contenuti. Difficile però rimproverargli di non aver saputo negli ultimi mesi, con coerenza e sagacia tattica, interpretare la sua parte per riportare il M5S agli antichi splendori.
Quel che avverrà nei due poli principali si riverbererà poi sul centro e sulle sue scelte. Se l’evoluzione del Pd dovesse sottrargli per assorbimento la sponda riformista, il cosiddetto «terzo polo» non potrà far finta di niente. E, inevitabilmente, sarà indotto a sondare una disponibilità della destra a politiche non estremistiche. In caso contrario, potrebbe trasformarsi nel «polo escluso» della Terza Repubblica così come l’Msi lo fu nella Prima. Presente in Parlamento con discrete percentuali ma fuori da tutto il resto: dal governo, dai principali incarichi istituzionali, da prospettive di consistenti vittorie elettorali a livello locale. Gli sviluppi della candidatura di Letizia Moratti in Lombardia offriranno in tal senso indizi importanti.
Ragionando in termini sistemici, dunque, il voto dello scorso settembre e gli avvenimenti successivi vanno considerati l’innesco di una fase di transizione che coinvolgerà tutti i protagonisti della scena politica - nessuno escluso - e che approderà ad esiti oggi difficilmente prevedibili. Il sistema politico italiano, insomma, appare come un canovaccio in cerca d’autore. Non è detto che lo trovi e, soprattutto, che lo trovi a breve.