Sarà un processo a stabilire se davvero la mafia si era riuscita a incuneare nel Consiglio comunale di Bari, culla e vetrina della democrazia del capoluogo regionale pugliese, scegliendo e sostenendo candidati e schieramenti dai quali poi pretendere provvedimenti e riconoscimenti. Ma in attesa dei tempi della giustizia, spesso poco compatibili con gli affari correnti, la lettura delle oltre mille pagine dell’ordinanza di custodia cautelare eseguita dalle forze dell’ordine lascia l’amaro in bocca.
Per il modus operandi degli indagati, dal rilievo penale da dimostrare nelle sedi competenti e però sicuramente già censurabile moralmente e politicamente, e per i nomi ricorrenti, nomi appartenenti ad una classe imprenditoriale che spesso ha invaso le fila della politica e in alcuni casi è spuntata in cordate premiate con l’assegnazione di importanti – e discussi – appalti.
«Mò pensiamo a Bari e poi pensiamo a Valenzano» si legge in una intercettazione tra due protagonisti della vicenda giudiziaria, una frase che di per sé non genera affermazioni di responsabilità nei confronti di alcuno ma che non può non suscitare sgomento nel chi pensa, ancora pensa, che le competizioni elettorali si facciano confrontando idee, programmi e storie personali dei candidati, e non invece pesando i voti rastrellati da consorterie criminali pronte a fare il grande salto, convinte di avere le carte in regola – che manco nelle puntate più suggestive di Gomorra – ad azionare le leve del potere riservate agli amministratori locali.
Gli organi elettivi del Comune di Valenzano, primo epicentro degli interessi della presunta associazione mafiosa smantellata dalla Procura di Bari, erano già stati sciolti per infiltrazioni criminali e dunque il blitz di ieri certifica una realtà che si era già appalesata. La traduzione in carcere, invece, di una consigliera comunale del Comune di Bari rappresenta un salto di qualità assolutamente inedito che lungi dal voler attestare la presenza della mafia a Palazzo di città, certo suscita interrogativi degni di risposte serie e non di alzate di spalle.
Gli accordi, spesso illeciti, avrebbero visto come protagonisti partner politici, imprenditori, esponenti criminali, tutti quei soggetti insomma in grado di garantire al candidato di turno bacini di voti dai quali attingere a piene mani, senza andare molto per il sottile rispetto alle residue ideologie politiche giacché a loro non interessava che vincesse uno schieramento politico piuttosto che un altro; interessa unicamente avere all’interno del Comune, si legge sempre nelle intercettazioni, «un cristiano nostro...a me non mi interessa la destra ... io ... di principio sono di destra... destra a motore sono io ...estrema destra proprio sono io di principio ...come persona ... ma se a me mi dici votiamo la sinistra che il cristiano nostro è di sinistra…nei paesi giustamente non conta destra e sinistra… no! .. a me non me ne frega nulla se è di destra o di sinistra... a me la cosa che mi interessa e che comunque è la coalizione vincente... oh! allora conta che noi dobbiamo stare bene…»
In attesa dei processi e delle sentenze, quanto disvelato ieri dovrebbe portare ad una seria riflessione tutti i partiti politici su come vengono gestite certe campagne elettorali, sui criteri coi quali sono individuati i candidati, e sulla eccessiva permeabilità, in nome dei famosi bacini di voti, delle liste, dimenticando che il sostegno elettorale mafioso ha sempre un prezzo da pagare. Nessuna generalizzazione qualunquista, sia chiaro: ma far finta che nulla è accaduto, non solo ieri ma negli anni e nelle varie competizioni, non è consentito ad alcuno. Servono fatti conseguenti e gesti concreti per dimostrare che gli appetiti della criminalità non vengono sfamati da nessun ente pubblico e che la mafia non incide su scelte e non può pretendere il rispetto di patti scellerati.