C’è qualcuno, oltre gli Urali, che confida nel Generale Inverno per risolvere una guerra infinita. Alle nostre latitudini, invece, c’è un altro ufficiale che qualche cannonata l’ha messa a segno. Il Generale Astensione ha colpito portando l’affluenza dieci punti sotto le consultazioni del 2018 e facendo registrare i picchi al ribasso nel Mezzogiorno (in Puglia -12,5%). Con dedica a chi immaginava, al contrario, una corsa al voto nel Sud straccione bramoso di conservare bonus, premi e redditi di cittadinanza.
Non è una sorpresa né un motivo di scandalo. A cercare i motivi della disaffezione si rischia di far notte nella selva oscura delle banalità. Ve le risparmieremo. Quel che qui rileva è il sovrappiù, il carico da novanta, e cioè l’espulsione della questione meridionale dal rachitico dibattito elettorale che ha attraversato il Paese in queste settimane così poco agostane e settembrine. Di fatto, solo in due occasioni il Sud è stato tirato in ballo: per le accuse, già citate, di votare seguendo il profumo di denari facili e per ricordare alle genti meridionali che è in arrivo l’autonomia differenziata, ormai non più bestemmia politica ma acqua reflua che ha infettato mezzo arco parlamentare dalla Lega al Partito democratico. E ancora. Tutte le precedenti tornate sono state contraddistinte da un’idea forte in campo economico se non sociale: dal bonus renziano al reddito pentastellato, passando per la flat tax e tutti i residui della mai nata rivoluzione liberale. Questa volta non c’è stata traccia di nulla se non una riproposizione di vecchie minestre che però è stato impossibile riscaldare a dovere, causa bolletta del gas. Il Pd ha provato a sussurrare qualcosa - dal salario minimo al bonus per 18enni - ma senza troppa convinzione. E in ogni caso non sono iniziative memorabili, tali da spaccare il Paese e smuovere le gambe, prima delle coscienze. Per di più, anche il Pnrr s’è perso per strada - tra velleità di cambiamento e scambi di accuse ungheresi - prima di sparire nel Mar Nero dell’irrilevanza mediatica.
Dunque, si è andati avanti così, confermando in linea di massima quello che era nell’aria da settimane. Giorgia Meloni scappa in testa, come raccontano i primi exit-poll, e d’altronde nessuno avrebbe mai scommesso sul contrario. Non sono più - da tempo - gli anni dei Prodi e dei Berlusconi, delle rimonte e dei sorpassi, dei vantaggi bruciati e dei conigli tirati fuori dall’urna. Il voto è ormai questione di vento in poppa: nel recente passato lo hanno avuto Renzi, i 5 Stelle, Salvini. Vincitori annunciati e benedetti dalla Storia (o, più modestamente, dalla cronaca) per una tornata, massimo due. Un destino inesorabile che taglia le gambe a destra e a manca, anche a quelli che avrebbero più titoli per intestarsi la rabbia popolare, soprattutto a fronte della «normalizzazione» che ha, nonostante le scintille con l’Ue, investito tutti i partiti populisti, ormai pro-euro e anti-Putin. Sono però tutti trionfi personali, individuali, spesso accompagnati dall’assenza di una classe dirigente autorevole: più voti che uomini, insomma. È un modo di andare avanti, quello delle passioni brucianti e degli amori «estivi», che non certifica nessuna maturità democratica - siamo, al fondo, un Paese infantile - e, soprattutto, che ciclo dopo ciclo, sfioritura dopo sfioritura, regala qualcosa al Generale Astensione ben felice, lui sì vecchio stile, di rosicchiare un tanto alla volta, fino ad «asciugare» il malato in scheletro.
A questo punto, per chi sulla politica ci ricama è forse più interessante il contorno del nocciolo. Intorno al successo di Fratelli d’Italia si raggrumano le ansie del centrodestra appiedato, quello che non corre ma arranca dietro la pasionaria romana. C’è innanzitutto Matteo Salvini, chiamato alla disperata prova del 10% (le proiezioni lo inchiodano sopra l’8%) per tenersi il partito e non farsi defenestrare dalla Lega vintage di Luca Zaia sul quale aleggiano sospetti di cessioni di voti alla Meloni. E poi c’è Silvio Berlusconi disturbato al centro dagli «eredi» Matteo Renzi e Carlo Calenda, lontani dal 10% ma comunque capaci di intercettare parte dell’elettorato moderato nonché del pubblico giovanile, probabilmente colpito da certe suggestioni manageriali da Silicon Valley che i due sono in grado di produrre.
Ma, prima di ogni altra cosa, è ai nastri di partenza il lungo processo sul futuro dei progressisti, una volta uniti nel campo largo - si attende il «ve l’avevo detto» di Michele Emiliano - e oggi perdenti nel campo stretto, anzi singolo. Il morettiano dibattito («sì, il dibattito sì») è dietro l’angolo. Il Pd la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria non ce l’ha. E ammesso che l’abbia mai avuta, l’ha persa. Il M5S, con picchi notevolissimi al Sud, in particolare nel Foggiano, se l’è cavata mettendo in naftalina Beppe Grillo e affidando al solo Giuseppe Conte il compito gravoso di una remuntada riuscita in buona parte. L’avvocato di Volturara Appula ha incassato tutti i crediti accumulati durante la gestione pandemica e s’è qualificato, con un gioco di prestigio, quale primo avversario di Mario Draghi (nonostante di quel Governo abbia votato praticamente ogni cosa, dalle sanzioni alle armi). Il tutto mentre gli altri, in vena di autoflagellazioni, annunciavano di voler stralciare il reddito di cittadinanza e, in seconda battuta, di volerlo modificare in modi incomprensibili. I pentastellati, insomma, ripartiranno da qui. Il Partito democratico, dove già volano i coltelli, potrebbe darsi invece una svolta più radicale, magari affidandosi ai suoi amministratori più blasonati e post-ideologici. A cominciare dal governatore emiliano Stefano Bonaccini e dal sindaco di Bari, Antonio Decaro. Si vedrà. Intanto oggi i numeri si affastellano e gli incastri si rincorrono, in attesa di dati certi. Vincitori e vinti. Risate e lacrime. Domani inizia un’altra battaglia.