Con la sentenza n. 125/2022 (pubblicata lo scorso 25 maggio) la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima una delle disposizioni introdotte dalla legislazione in materia di licenziamenti dell’ultimo decennio.
Si tratta del nuovo testo del famoso art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nella versione modificata dalla legge Fornero del 2012 (quella sul mercato del lavoro, non quella sulle pensioni), sulla scia della lettera dell’agosto 2011, con cui la BCE chiese al nostro Governo – tra l’altro – di adottare «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento».
Ebbene, sull’accuratezza tecnica della normativa che ne è scaturita ora possiamo porci qualche dubbio.
Fino al 2012, la tutela contro i licenziamenti ingiustificati variava unicamente in base all’organico: le imprese considerate più forti (con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel Comune o più di 60 dipendenti in tutto) subivano la condanna a reintegrare il lavoratore (il quale poteva optare per un’indennità sostitutiva) ed a pagargli le retribuzioni perse nel periodo dal licenziamento alla sentenza. Viceversa, nelle piccole imprese la sanzione era molto più blanda, consistendo in un modesto indennizzo. Per inciso, l’alternativa secca, risalente ai tempi in cui risultava egemone il modello dell’impresa fordista di medio-grandi dimensioni, sconta oggi un certo tasso di approssimazione, nel momento in cui misura la consistenza economica dell’impresa unicamente sul numero dei dipendenti.
La tutela forte ha retto per molti anni, fino all’avvento della filosofia della flexicurity: una combinazione tra la flessibilità delle regole del rapporto (che si è vista) e la sicurezza nel mercato del lavoro, ossia la facilità nella transizione verso nuovi impieghi attraverso un robusto sistema di politiche attive del lavoro (che ancora attendiamo).
A seguito della legge Fornero, quando l’impresa licenzia un lavoratore per una ragione economica (si chiama giustificato motivo oggettivo) che si rivela infondata, la sanzione forte può scattare (ma non è detto che scatti: decide il giudice, senza che sia scritto in base a quali elementi), soltanto se l’insussistenza del fatto a base di questa motivazione appare «manifesta». Se, invece, l’insussistenza appare e basta (proprio così!), scatta una sanzione più blanda, solo indennitaria (senza il ripristino del rapporto di lavoro).
Tale norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (sentenza n. 59/2021), nella parte in cui rende meramente facoltativa l’applicazione della sanzione forte, senza fornire alcun criterio in grado di orientare la scelta.
Con la sentenza n. 125/2022 la stessa norma è stata nuovamente dichiarata incostituzionale, questa volta nella parte in cui distingue tra insussistenza e insussistenza «manifesta» del fatto: una distinzione considerata dalla Corte indeterminata e irragionevole e, quindi, foriera di ingiustificate disparità di trattamento.
Nel frattempo, era intervenuto a rimescolare ulteriormente le carte uno dei decreti legislativi inseriti nel pacchetto normativo mediaticamente noto come Jobs Act, applicabile ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015. Costoro, se licenziati ingiustamente, perdono in molti casi l’accesso alla tutela reintegratoria e ricevono un indennizzo, fissato in un importo (poi incrementato nel 2018 dal cosiddetto decreto ‘dignità’) graduato solo in base all’anzianità di servizio del lavoratore. Sul punto, la Corte costituzionale era già intervenuta con le sentenze nn. 194/2018 e 150/2020, censurando l’automatismo rigido di tale modalità di calcolo (chiamato «contratto a tutele crescenti»).
Parallelamente, negli stessi anni la giurisprudenza si è adoperata nel tentativo di rimediare ad ulteriori aporie presenti nelle recenti riforme, riuscendo almeno a depotenziarne le più evidenti bizzarrie sul piano tecnico. Basti pensare al dibattito sull’insussistenza del fatto materiale nel licenziamento disciplinare (che qui non è possibile neppure riassumere).
Ma l’interpretazione correttiva non può tutto. Da più parti si invoca un ulteriore intervento legislativo, che ponga rimedio al disordine creatosi in questi anni: una moltitudine di regimi in cui è sempre più difficile districarsi.
Una invocazione comprensibile, anche se la tentazione (sia detto con ironia) sarebbe quella di chiedere al legislatore l’esatto contrario, ossia di stare fermo – almeno per un po’ – per non rischiare di iniettare ulteriori dosi di irrazionalità nel già sofferente apparato normativo.