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Il conflitto visto dalla parte dei bambini in tv

Il conflitto visto dalla parte dei bambini in tv

 
Michele Partipilo

Reporter:

Michele Partipilo

I video della guerra attraverso gli occhi dei bambini

Famiglie in fuga dalla guerra

Martedì 22 Marzo 2022, 14:38

La guerra in corso in Ucraina gode senza ombra di dubbio della maggiore copertura mediatica che un conflitto abbia potuto avere. Dirette a ogni ora del giorno con inviati di tv, radio, giornali e siti web; cineoperatori e fotografi su ogni luogo in cui c’è qualcosa da riprendere e, infine, il potere infinito degli smartphone attraverso i quali si fanno collegamenti, arrivano notizie e immagini. Si potrebbe dire una «guerra 2.0» dal punto di vista mediatico, tanto che la facilità di avere immagini e di collegarsi con i giornalisti sul posto alimenta il rischio di far apparire ogni servizio televisivo o online come un film, una fiction da seguire comodamente stando seduti in salotto. Purtroppo non è così e questo è il primo inganno cui ogni utente dei media è esposto: osservare e giudicare attraverso una rappresentazione della realtà, anche attenta e completa, ma che non è mai la realtà.

Nella overdose di immagini disponibili, molte testate hanno scelto di raccontare la guerra puntando sui bambini. Non si contano i filmati o gli scatti di questo genere diventati virali: foto pubblicate come manifesti sulle prime pagine dei giornali oppure scene proposte e riproposte attraverso schermi televisivi e podcast sempre più numerosi. Volti di bambini piangenti, corpicini feriti in sgangherati letti d’ospedale, neonati infagottati in coperte di fortuna, timidi sorrisi di fronte a un peluche, calde lacrime sulle spalle di madri sfinite. Abbiamo visto di tutto in questo mese di guerra. «È l’immagine bellezza e tu non puoi farci niente! Niente!», avrebbe ammonito un redivivo Humphrey Bogart di L’ultima minaccia. E forse avrebbe ancora ragione lui, come nel celeberrimo film del 1952.

Narrare la guerra attraverso i bambini è scelta facile. Anzi, così facile da essere quasi obbligata. Chi non si commuove davanti a un bimbo in lacrime che ha freddo e fame? Le immagini dei piccoli sono sempre di sicuro impatto: attirano l’attenzione, coinvolgono emotivamente, creano audience. Per questo sono da sempre molto utilizzate dai media, sono una garanzia di attenzione da parte del pubblico. Tutti un tempo siamo stati bambini e anche inconsciamente torniamo in qualche modo a quella condizione perduta. La tenerezza si mescola alla pietà, il senso materno o paterno si riaccende, l’indifferenza cede il passo alla misericordia, una parola molto bella formata da due temi: avere pietà e cuore (dal latino miserere e cor). La misericordia ha una caratteristica: non è mai privata, fa traboccare il sentimento, lo rende pubblico, si trasforma in un atto di soccorso, in un aiuto concreto verso chi suscita pietà. È questo il meccanismo profondo e antico che porta a sentirci solidali, a regalare denaro, cibo e vestiti a chi fugge dalla guerra, a ospitare famiglie sconosciute nelle nostre case. È il cuore e non la testa che comanda.

C’è un’altra parola che ha il tema del cuore: è ricordare. Letteralmente significa riportare al cuore e si distingue da rammentare che significa riportare alla mente. Molte delle mamme in questi giorni arrivate in Puglia tra mille peripezie c’erano state da ragazze, quando vennero da noi ospiti dei programmi per il dopo Chernobyl. Accolte come figlie, hanno trascorso i mesi estivi all’aria e al sole. E quell’esperienza è rimasta loro nel cuore. Hanno «ricordato» quel momento felice e hanno telefonato, hanno chiesto aiuto a quelle famiglie che - anche loro - hanno «riportato al cuore» quei giorni lontani.

La capacità evocativa delle immagini è potente. In loro vi è una forza enorme che può condurre tanto al bene quanto al male. Travolti dal ricordo e dalla misericordia non ci stiamo interrogando sull’uso di tante immagini. Perché la tecnologia è spietata, sia quando ti aiuta sia quando ti condanna. Le migliaia di immagini di bambini, non solo sono entrate nei nostri cuori, ma sono entrate nel deposito infinito di Internet, dove ci resteranno per l’eternità, senza la possibilità che siano un giorno cancellate. Per sempre a quei bambini divenuti adulti rammenteranno questi giorni terribili, negando loro la possibilità di dimenticare e di perdonare. Quando andranno all’università, a un colloquio di lavoro, al primo incontro d’amore qualcuno andrà a controllare il loro passato e riaprirà ferite appena rimarginate, risveglierà angosce e dolori lontani.

Il passato è la somma dei nostri passi. L’origine sta nel verbo latino pandere, che significa estendersi e indica il movimento che le gambe compiono nel passo. Il passato - pubblico e collettivo - non può essere cancellato, perché è storia. Sono le nostre radici e dal passato dovremmo imparare a costruire il futuro. Ma c’è un passato che non appartiene a tutti, che è giusto che resti nel cuore di chi lo ricorda, merita rispetto e comprensione. Delle brutture della guerra abbiamo visto fin troppo, più di ogni altro spettatore dei conflitti precedenti. Diamo un po’ di pace ai bambini e non facciamo che i loro occhi restino in lacrime per sempre.

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