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E il vocabolario è il nostro essere

 
Rosario Coluccia

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Rosario Coluccia

E il vocabolario è il nostro essere

Venerdì 05 Gennaio 2024, 19:27

29 Gennaio 2024, 12:46

Parole, parole, parole. Si intitola così la rubrica che oggi comincia su questo giornale. Il titolo allude ai contenuti fondamentali della rubrica, che tratterà della lingua italiana, che (come tutte le lingue del mondo) è intessuta di parole. Il titolo è una citazione: a molti sarà venuta in mente una canzone di Mina e Alberto Lupo, sigla di chiusura di una trasmissione televisiva del 1972, in cui un seduttore insistente e un po’ fuori moda, con frasi ammalianti snocciolate di continuo, cercava di sedurre una donna bellissima, sicura di sé e smagata, ben in grado di resistere a lusinghe superficiali.

Ne scaturiva un duetto irresistibile, dove la sensuale voce recitante di lui era accompagnata dal sorridente controcanto di lei. Tutto il dialogo restava all’interno di una disputa misurata e a tratti ironica, senza eccessi verbali di alcun tipo. Quasi una riproposta in chiave novecentesca di uno dei testi più affascinanti della nostra poesia delle origini, il cosiddetto Contrasto di Cielo d’Alcamo, della prima metà del Duecento, che in 160 versi racconta la disputa amorosa tra «amante che prega» e «donna che nega», sottile scambio di battute tra uomo e donna, capace di toccare le mille corde del corteggiamento amoroso: «Rosa fresca aulentissima, ch’apari inver’ la state», «Rosa fresca profumatissima, che fiorisci in estate», così si rivolgeva quell’uomo del Medioevo alla donna desiderata. Nulla di paragonabile alle profferte e agli assilli sguaiati con cui gli stalker dei nostri giorni tormentano donne che li rifiutano; utilizzando tutti i mezzi (compresi quelli digitali che ingigantiscono i messaggi), fino alle violenze fisiche e ai femminicidi di cui parlano troppo spesso cronache terribili.

Parole, parole, parole, affermava un danese il cui nome tutti conoscono, Amleto principe di Danimarca, protagonista del famosissimo dramma di William Shakespeare. Siamo nel castello di Kronborg (conosciuto anche come Elsinore), castello realmente esistente e visitato da molti, dal 2000 riconosciuto dall’Unesco patrimonio dell’umanità, situato nella punta estrema dello stretto che separa Danimarca e Svezia, costruito nell'anno 1420 dal re danese Eric di Pomerania al fine di controllare il passaggio delle navi e riscuotere il pedaggio d’accesso e d’uscita dal Mar Baltico. In una scena cruciale (Amleto, atto II, scena II) dialogano Amleto, che finge di essere pazzo per poter agevolmente vendicare il padre (ucciso dallo zio, fratello del padre, che ne ha sposato la vedova e usurpato il trono) e Polonio, cortigiano e padre di Ofelia, la donna di cui il principe è innamorato. «Che state mai leggendo, mio signore?» chiede Polonio, che Amleto ha identificato come pescivendolo, nella sua finta pazzia. «Parole, parole, parole», replica Amleto.

E ancora «Tutte bubbole! Questo sarcastico cialtrone scrive che i vecchi hanno barbe grigie e facce rugose, occhi che versano goccioloni d’ambra e gomma di susino; e che sono peggio che slombati e senza cervello. Cose che penso anch’io, ma che non mi pare giusto mettere per iscritto. Invecchiereste anche voi, come me, se poteste andare indietro come i gamberi». Al che Polonio, inconsapevole del lucido raggiro del principe, commenta: «Pazzia, non c’è che dire, ma non senza un metodo».

In questa rubrica tratteremo di parole. Da un punto di vista teorico, non è semplice definire esattamente cosa sia una parola. I vocabolari propongono questa definizione: «unità distinguibile nelle frasi che usiamo nel parlare e scrivere» e fanno esempi come: «il bimbo ha imparato una nuova parola», «solo tre parole per dirti: ti voglio bene», «mandami un articolo di non oltre mille parole», ecc. Su alcune caratteristiche siamo tutti d’accordo. La parola è un’unità minima isolabile all’interno di una frase; è composta da una sequenza di suoni (tecnicamente fonemi), grazie ai quali possiamo distinguere parole di diverso significato (distinguiamo tra «affetto» e «effetto» grazie alla presenza di «a» iniziale nel primo caso e di «e» iniziale nel secondo; distinguiamo tra «cane» e «pane» grazie alla presenza di «c» iniziale nel primo caso e di «p» iniziale nel secondo; ecc.); esistono parole semanticamente «piene», cioè dotate di un significato autonomo fondamentale (come nomi, aggettivi, verbi, avverbi) e parole semanticamente «vuote», senza un significato autonomo e necessarie per la struttura sintattica della frase (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni).

Un sicuro punto fermo è l’etimologia: il vocabolo deriva dal lat. «parabola» (a sua volta dal gr. parabolé), che originariamente significava «comparazione, similitudine». Per l’uso fatto dagli autori cristiani dei primi secoli, il vocabolo esce dalla terminologia retorica, perde il significato primitivo, che continua nella forma originaria solo con riferimento alla predicazione di Gesù, fondata su esempi e similitudini, le «parabole» (appunto, come intendiamo ancor oggi quando ci riferiamo ai Vangeli). Seguendo altri percorsi la base latina, sottoposta alle leggi dell’evoluzione fonetica (le lingue cambiano nel tempo, è ovvio), si diffonde nelle lingue romanze derivate dal lat.: it. «parola», fr. parole, sp. palabra, port. palavra, ecc. Potremmo trarre lo spunto, e forse lo faremo in una diversa occasione, per riflettere sul tramite svolto dal Cristianesimo nello sviluppo di certi significati che riusciamo a capire solo se li riconduciamo al contesto in cui sono nati: «cattivo» «malvagio» (da captivus diaboli «prigioniero del demonio»), «talento» «inclinazione, attitudine» (dal nome della moneta in uso in Palestina, di cui parla la parabola dei talenti, monete che il padrone in partenza per un viaggio affida ai suoi servi perché le facciano fruttare), «tradire» «ingannare» (da tradere «consegnare», in ricordo del gesto di Giuda che tradidit «consegnò» Gesù ai carnefici).

La parole possono avere conseguenze rilevanti. «Dammi la tua parola», chiediamo per essere rassicurati. «Le tue parole mi hanno ferito», diciamo se ci sentiamo offesi. Dobbiamo imparare ad usarle, e non è facile. Esemplare un dialogo di Palombella rossa, il film di Nanni Moretti (1989). Contro l’intervistatrice che usa frasi come «matrimonio a pezzi», «rapporto in crisi», «è cosi kitsch», «io non sono alle prime armi», «il mio ambiente è molto cheap», «ma lei è fuori di testa!», il protagonista reagisce: «Dove le andate a prendere queste espressioni, dove le andate a prendere...?», «Ma come parla?», «Come parla! Come parla! Le parole sono importanti. Come parlaaaaaaaaaa!», fino alla conclusione: «Chi parla male, pensa male, e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!». Anche noi la pensiamo così.

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