«Vito Antonio Di Cagno. Sindaco di Bari e poeta dialettale». Questo il titolo di un elegante volume (edizione fuori commercio, pp. 195) pubblicato con il patrocinio dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Comitato di Bari, da Nicola Roncone, appassionato bibliofilo, socio dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, profondo conoscitore di uomini e «cose» baresi, che in queste pagine si occupa di un indiscusso protagonista della vita politica, sociale e culturale del capoluogo pugliese a partire dall’immediato dopoguerra fino agli anni Settanta.
L’opera, impreziosita dalle puntuali, stimolanti Introduzioni di Pasquale Corsi e Domenico Lassandro che si soffermano rispettivamente sul valore e sul significato del dialetto nell’era della globalizzazione e sulle principali caratteristiche e sui maggiori interpreti della vita culturale barese tra Medioevo ed età moderna, offre un’immagine a tutto tondo di Vito Antonio Di Cagno ricordandone da un lato l’impegno professionale e politico-amministrativo – fu sindaco dal 1946 al 1952 e primo presidente, dal 1963 al 1973, dell’Enel –, dall’altro il grande interesse per la cultura popolare e il dialetto.
E proprio alla tradizione vernacolare Roncone dedica una nutrita serie di pagine che servono soprattutto a ricordare il ruolo svolto dai grandi padri della poesia dialettale barese, Francesco Saverio Abbrescia e Davide Lopez che influirono non poco su Di Cagno trasmettendogli «l’atmosfera frizzante e disincantata, ironica e nostalgica della più autentica cultura popolare», tanto da spingerlo a cimentarsi nella composizione di versi poi raccolti in un volume significativamente intitolato Acquanne pozze... Cande (1972).
La parte più corposa e interessante del volume è comunque dedicata alla pubblicazione di frasi sapienziali e aforismi popolari raccolti da Di Cagno negli anni Cinquanta del Novecento e messi a disposizione dal figlio avv. Nicola, qui introdotti e di volta in volta accompagnati da note esplicative e riflessioni di carattere demologico e letterario di Roncone che non manca di evidenziare soprattutto il carattere metaforico e allusivo dei testi.
Motti e proverbi, frasi più o meno lunghe e conosciute che da un lato richiamano immagini e situazioni ampiamente presenti nella letteratura paremiologica, dall’altro rimandano a momenti e protagonisti di un’antica, ironica baresità in parte perduta: per disprezzare traditori e malfattori – ricordava Di Cagno – si faceva rivivere nella memoria collettiva una crudele spia dell’Intendente Ajossa, soprannominata Tatoppa dai patrioti liberali di Terra di Bari impegnati nei moti insurrezionali del 1848: Chessì sciuquave Tatoppe e u ‘ndendènne Ajosse. E poi ancora l’immagine della pietra scura e durissima di san Cataldo (u chiangone de san Catalde) serviva a indicare un uomo testardo e irremovibile; un cognome tipico della città veniva impiegato per deridere persone difficilmente reperibili se non addirittura introvabili (Catacchie! Mò tu vite e mò non tu’jacchje); il nome di un santo molto venerato dalle nostre parti serviva a dare una certa dignità al fantoccio di carnevale almeno durante il suo funerale (Ah Rocche ah! Ci av’à chiandà la bastenache?). E nell’immancabile, ricco «bestiario» dei proverbi baresi non poteva mancare il leone: non quello della blasonata, colta tradizione favolistica, ma quello in pietra, di Piazza Mercantile dove venivano legati per essere esposti al pubblico ludibrio tutti quelli che non erano riusciti a saldare i debiti o erano falliti (Ave mestrate u cule au ljione).
E infine modi di dire e proverbi dedicati al lavoro e al denaro, ai mesi e alle stagioni dell’anno, alle feste e alla gastronomia, alla vita e alla morte, all’amicizia e al matrimonio, alle differenze sociali e sessuali: tutto e sempre attraverso il continuo richiamo alla «creanza» e all’onestà, all’intelligenza e al buon senso, insomma a virtù e qualità che potevano e forse possono ancora oggi trovarsi solo ed esclusivamente in una «capa» disposta a ragionare, a comprendere la realtà e gli altri e non chiamata a tenere semplicemente divise e distanti le orecchie: Cee tjine a fà la cape? Pe sparte le rècchie?