Era la fine degli anni settanta quando andavamo di sera alla galleria «Dell’Arco» in via Mario dei Fiori, a Roma. Era gestita da Peppino Appella, un critico d’arte di molta raffinatezza che ospitava poeti, narratori e pittori e gestiva La Cometa, una casa editrice un po’ vicina per le scelte editoriali ai «libri d’artista» di Scheiwiller. Si potevano incontrare Gino Montesanto, Tano Citeroni, Libero de Libero, Leonardo Sinisgalli e talvolta i milanesi Raffaele Crovi e Vanni Scheiwiller. Ci si spostava quasi sempre in qualche trattoria, dove arrivavano Assadour, Miriam Mafai, Elio Roccamonti, Pietro Consagra, e Anna, la vedova del poeta Tito Balestra. Fu in quelle serate che si giunse all’accordo di trasferire tutte le opere di Mino Maccari in Romagna, nel castello Malatestiano di Longiano dove stava nascendo la Fondazione Balestra, un poeta dalla frecciata fulminante come Ennio Flaiano e che era in possesso di oltre duemila opere d’arte del Novecento italiano.
Appella era ed è uomo sobrio e di poche parole, ma rispettato da tutti e in specie dai pittori della Scuola Romana. In qualche modo mi contagiò la passione per l’arte. Lui che d’estate scendeva a Castronuovo Sant’Andrea, un piccolo comune del materano dove stava realizzando nelle case paterne un museo della grafica e che collaborava alla gestione del circolo letterario La Scaletta di Matera, prodigandosi nella scelta di scrittori e di pittori da presentare al pubblico lucano. E legando continuamente centro e periferia, convinto che il genio è in grado di mostrare le tracce del nuovo da qualunque parte abiti. Il nuovo, ecco la sua fissa costante.
Più volte avevo incontrato Appella a Bari, ospite delle librerie Laterza e San Paolo con Vanni Scheiwiller, e a Bari sarebbe tornato a metà anni Novanta per curare la personale di Raffaele Spizzico presso il Castello Svevo. Fu una mostra epica, quale non si è mai vista per un pittore pugliese vivente, perché Appella curò per l’antologica, un catalogo molto ben articolato e che costituì una pietra miliare per la vita e la diffusione del nome di Spizzico e per la storia della pittura pugliese del dopoguerra.
I suoi amori restavano i grandi pittori romani e alcuni italiani degli anni sessanta e settanta, Afro, Mirko Basaldella, Gentilini, Toti Scialoja, Ciarrocchi, Turcato, prima di passare a curare l’attività pittorica degli irregolari italiani degli anni ottanta e novanta, da Tano Festa a Mario Schifano, da Mimmo Rotella a Mimmo Paladino a Piero Manzoni e Pino Pascali fino al giovanissimo Giacinto Cerone e all’amico Ginetto Guerricchio. Anzi fu proprio prendendo spunto da Cerone e Guerricchio che negli anni scorsi Appella ha dedicato all’arte lucana del Novecento una pregevole monografia pubblicata dall’ente per il Turismo di Basilicata. Creandosi ovviamente inimicizie, in ossequio al suo principio costante, che solo il rinnovamento ha ragion d’essere al mondo. Ma offrendo anche un esempio del come l’arte che fiorisce in provincia ha bisogno di continui sostegni critici per emergere.
Di tutti gli amici pittori e scultori il critico torna oggi a parlare in un volume che raccoglie quarant’anni di attività dal 1977 al 2020, Maestri, amici. Arte e artisti del Novecento, edito da Silvana editoriale. Partendo da Antonietta Raphael, Mario Mafai e Scipione, il libro raduna interventi critici e biografici su cinquanta artisti che hanno attraversato la vita di Peppino Appella, seguendo un principio ormai in via di obnubilamento, la creatività affidata al segno e alla parola, all’immagine e al concetto e la critica che si fonda sull’onestà, pur privilegiando amicizia e convivenza. Sono infatti godibili gli spaccati e gli aneddoti che Appella apre sulla vita dell’intellettualità romana tra gli anni settanta e la fine del Novecento, dalle ire di De Libero sulla paternità della galleria La Cometa alle ironie di Elio Roccamonti e Tito Balestra alla polemica sul mancato Nobel a Sinisgalli al tempo in cui venne assegnato a Montale. A questi si aggiungono i testi critici scritti per gli artisti americani ed europei incontrati durante lunghi viaggi tra i continenti. Figurano maestri di prim’ordine come Hans Hartung, Sebastian Matta, Assadour, Kengiro Azuma, Stanislav Kolibal e altri. Uomini che Appella ha portato successivamente a Matera, organizzando mostre importanti e suggestive disseminandole tra le cripte e le chiese rupestri dei Sassi. Assistito da Franco Palumbo e Raffaello De Ruggeri.
C’era una volta una collaborazione fondamentale tra cinema e narrativa, tra scultura, filosofia e poesia, spiega Appella. Era in piedi una forma di civiltà dell’arte in cui non c’era la spaccatura tra discipline come negli anni correnti. Così nel libro non ci si sorprende nell’incontrare figure come Carlo Belli e Leo Longanesi, affianco a uno stuolo di pittori, poeti come De Libero, autori che hanno trovato asilo nelle edizioni de La Cometa tenute in piedi per decenni da Appella. Che mi appare l’ultimo dei critici interessati alla ricostruzione di un mondo di creativi, gruppi disciolti dall’individualismo odierno, gli stessi uomini che troviamo fotografati in un’epica foto del Caffè Greco. Fino a Pietro Consagra e Pier Paolo Pasolini che chiudono questo lungo Amarcord del critico lucano trapiantato a Roma ma che ha coltivato sempre il doppio sentimento dei luoghi natii e di quelli di adozione.