BARI - Le cronache continuano a riportare casi di femminicidio e di violenza fisica o morale contro le donne, con una macabra cadenza che neppure la pandemia ha interrotto, anzi. Ma accade che a uccidere sia lei. Una donna di mezza età, intelligente, istruita, di famiglia benestante, sposata da vent’anni e separata di fatto, madre di due figli. Perché sopprime il coniuge? Una visita improvvisa del marito che non vedeva da un po’ - ha tagliato i baffi - e i discorsi accesi sebbene consueti mentre un’orata è nel forno: i soldi destinati ai figli distratti dall’economia familiare, i tradimenti subiti o immaginati, le schermaglie dell’amore finito... Lui è possessivo e aggressivo come al solito, in passato le ha fatto del male fino a mandarla al pronto soccorso. Stavolta lei reagisce d’istinto e gli sferra un colpo di coltello da cucina. Il corpo esanime è trasportato nottetempo verso il lago, con l’aiuto del nuovo compagno della donna, e verrà ritrovato qualche settimana dopo in un’ansa limacciosa.
Intanto c’è stato il corteo funebre con i familiari di lui e la vedova in prima fila. Il processo, l’appello, gli avvocati, i giudici e nel mezzo una confessione televisiva di quelle che vanno per la maggiore, morbose persino quando vorrebbero essere indulgenti.
Si chiamano Stefania e Dino Russo. Il morto era un geometra e immobiliarista nel cui ufficio lavorava anche la moglie. Antonio e Laura sono i figli, adesso già grandi, vittime due volte, ma che dico: cento, mille volte vittime. Roberto è il complice nell’occultamento di cadavere, per quel che conta il suo ruolo. Ecco i caratteri principali della tragedia in un Nord Italia indefinito e volitivo, tra fortune ereditate e imprese azzardate, balere e gelosia, lampi di futuro e benessere decaduto. È questa la cornice evocata da Intervista alla sposa di Silvio Danese, apparso di recente per La nave di Teseo (pagg. 525, euro 19,00).
Un testo di fiction che schiva le insidie del «romanzo-verità» ed è sensibile alle ragioni di tutti, sebbene sia concentrato sulla protagonista, o, meglio, incardinato nel dialogo serratissimo - reale e onirico - che l’io narrante intreccia con Stefania. Invero, il contesto asfittico o l’orizzonte della storia è il carcere in cui la protagonista da qualche anno sta scontando la sua pena. Nel parlatorio lo scrittore si reca per cinque giornate di confronto, che non di rado si traduce in scontro, portando con sé il taccuino degli appunti e un registratore per accumulare suggestioni e fissare i momenti salienti da far confluire nel libro.
In epigrafe a Intervista alla sposa c’è un monito del famoso psichiatra R.D. Laing: «Ascoltare una storia non equivale a scoprire la storia». Già. L’altro esergo è tratto da Storia lacerata nel corpo di una donna di Adonis, il poema dedicato ad Agar, concubina di Abramo, quindi al desiderio e alla cattività, le matrici del femminino che nei secoli si tramandano ribadendo il potere virile: «Schiava – conoscevo Dio come amante e sposo. / Sposa – in lui, ora, riconosco la mia schiavitù. / Fra noi non sono rimaste che le nostre spoglie». Preludio perfetto a un romanzo che nel suo farsi riflette sulla propria opportunità-necessità, con la lima ed il cuore all’opera su ogni singolo passaggio. Vita, donne. «Esse parlano meglio di quanto non sappiano, e al di là della vostra comprensione. Esse sanno e non sanno, che l’agire è soffrire. E il soffrire azione», diremmo con T.S. Eliot di Assassinio nella cattedrale.
Giornalista e critico cinematografico con esperienze teatrali e musicali, Silvio Danese è nato a Pavia, vive a Milano e custodisce origini in parte pugliesi. Ha scritto, tra l’altro, un «romanzo del cinema italiano» ispirato agli incontri con Monicelli, Risi, Sordi e una partitura di racconti (Anni fuggenti e Il suono della neve, Bompiani 2003 e 2009). Autore raffinato, qui appare consapevole come pochi dell’assunto per cui «il linguaggio è la casa dell’essere». E fra le mura domestiche la ricostruzione del delitto non conta certo quanto i ricordi e l’inconscio di Stefania: l’infanzia, la giovinezza, la vita matrimoniale, la maternità. I suoi fantasmi affiorano alla ribalta insieme all’ascesi letteraria del narratore, il quale è presto preda di una passione erotica ritenuta eppure insopprimibile verso quel corpo ancora vivido, le mani, i seni, le gambe, il culo: «Quando si muove verso la scrivania torna una pantera avvilita. Mi guarda dall’alto, riprende i capelli stornati, io vedo occhi gialli languidi, pupille nere».
Stefania passa a dargli del «tu», un po’ provocatoriamente. Lui ripristina la distanza, si trincera dietro il Lei, ma poi ci casca senza accorgersene a pagina 337: «Non credo di, cioè ho fatto il possibile per non farti sentire a disagio». Due voci, una frontiera tra interno ed esterno che le attraversa entrambe, l’onda che porta lontano e una risacca che finisce nel fango e sommerge, confonde, addolora. C’è la collisione tra mondi diversissimi e forse irriducibili, una donna e un uomo, ma anche la tregua senza la quale non è possibile definire la radice e il senso ultimo delle cose. È una sfida letteraria di rara bellezza a prendere corpo nelle pagine di Danese, una sfida senza la baldanza «dannunziana» oggi riproposta in sedicesimo dai talk show o sui social. Piuttosto, la sua è la partita doppia del riguardo, il secondo sguardo che denota rispetto, premura, scrupolo verso l’altro.
«Ho incontrato mio marito. Ci siamo amati. Ci siamo uccisi», dice d’un tratto Stefania. Punto. Sembrerebbe una frase alla John Ford: laconica, maschia, western. Ma la chiave sta nel «ci siamo uccisi», il sangue di lui è il sangue di lei. E se «la lingua è più del sangue», secondo il celebre motto di Franz Rosenzweig, la filologia dell’omicidio non può che essere una decostruzione-sovversione dell’ordine del discorso amoroso che sempre cela un potere... Foucault più Barthes più Derrida nell’indagine sulla morte di Dino Russo e la sua attraente moglie in galera, mentre un uomo ne scrive e sogna di loro. «Non so ancora come, ma ci sarà un modo, troveremo una via segreta, un modo per parlarci, perché semmai è dal mondo dei morti che viene il futuro dei vivi. In questo sepolcro pavimentato dal torpore liquido di ogni passato un giorno camminando. Un giorno camminando i secoli ci incontrarono, e i secoli chiamarono altri secoli, e ci incontrammo tutti quanti con altri secoli ancora, e fu come sempre una cosa tra maschi, come il tempo». Intervista alla sposa è un romanzo inesorabile e compassionevole, magnifico.