BARI - Si è diffusa con rapido sgomento, nella comunità artistica pugliese, la notizia della scomparsa improvvisa di Pippo Patruno, a soli 68 anni, nella sua Monopoli. Artista mite e riservato, aveva elaborato una sua personale cifra di riflessione sentimentale e concettuale, maturata in lunghi anni di collaborazione con Marilena Bonomo nella sua galleria barese. Era da poco andato in pensione dall’Accademia di Bari dove insegnava, dopo esserne stato studente e aver intrapreso da lì i primi passi pubblici come artista (era fra i miei giovani studenti che presentai nella collettiva «L’Altra Tigre», 1986).
Proprio dalla memoria della galleria Bonomo si era connotata l’ultima fase del suo percorso artistico, rivelata dal 2019 con una personale da Nuova Era a Bari. Un incrocio e rimescolamento di tempi espresso con l’«impacchettamento» ( Man Ray piuttosto che Christo) di copertine di magazines d’arte, chiuse dentro ordini esatti di cordicelle. All’inizio da vecchi numeri della rivista americana Artforum lasciati da Marilena Bonomo in galleria, poi con l’inserzione anche di foto di attualità. Un’arte «archivistica», presentata di preferenza in situazioni da bancarella o con accumuli e spargimenti. A questo alludeva, intitolando la mostra «Futuro remoto». Mi chiesi allora se non si trattava della «residua scelta, con metodica ironia, di un’arte come salvezza e consegna di quel che resta dai naufragi della storia».
Una poetica del salvataggio, per così dire. Confermata dalla circostanza che in una parte della mostra (presentata da Marilena Di Tursi) aveva voluto lasciar traccia delle pratiche minimal-concettuali con le quali aveva operato una importante svolta dal 2005 nei suoi percorsi. Presentò nella Bonomo per la prima volta pannelli modulari di lettere maiuscole che componevano una parola sola o brevi frasi. Epigrafi che evocavano desideri, stati d’animo, esigenze etiche ed ermeneutiche. Ma ricondotte all’ordine della pittura da sobrie velature e sovrapposizioni cromatiche. Non senza tocchi di ironia giocosa, quasi liberatoria. Per questo scrissi allora sulla «Gazzetta», salutando il suo nuovo corso, che Patruno «ha aperto la gabbia ma non sa ancora dove andrà».
La gabbia a cui mi riferivo era quella delle opere con cui si era proposto nei primi anni del 2000, con altra personale in via Niccolò dell’Arca: strutture cromatiche esatte, blocchi di geometria piana che s’incastravano con paziente ritmo, calchi di forme astratte allineate in ossessioni seriali o disposte come giochi di domino, o piante improbabili di case o mappe di città («Le stanze del giardiniere»).
Nel tentativo di riordinare ora questi passaggi nella sua storia d’artista, mi accorgo che quelle che a me apparivano «svolte» erano di fatto tappe rivelatrici di percorsi compiuti nel silenzio della sua casa alta sul mare di Monopoli. Un lavoro segreto. Come il male dentro di sé che lo ha divorato. Possiamo solo opporgli, ricordando l’amico scomparso, la resistenza dell’arte.