BARI - La regola dei «carusi», ragazzi con una forte inclinazione a delinquere, cresciuti sulla strada, svezzati dalla malavita e mandati allo sbaraglio che per riempirsi il portafogli lo svuotano ai coetanei perbene. Sono l’ultima leva delle cosche: arruolati nei quartieri ad alta concentrazione criminale: Ceglie, Libertà, San Paolo, San Girolamo, Carbonara, Japigia, Enziteto Bari Vecchia. In queste zone è più facile per i ragazzi crescere secondo i codici mafiosi e la «cultura» dell’omertà, del sopruso e del rifiuto dello Stato è più profonda. Studiano da picciotti. Fanno pratica per strada. Le «famiglie di mafia» li relegano a compiti secondari: corrieri, portatori di ordini e vedette dei covi. Arrabbiati, veloci, violenti. Sono quelli della paranza degli avvoltoi, che vanno a caccia nella movida, lì dove albergano le comitive giovanili, quelli dei licei e delle sneaker da 500 euro.
Facce da bravi ragazzi, nessuna condanna sul groppone ma a ben cercare dalle banche dati saltano fuori denunce, contestazioni, segnalazioni e arresti. Si muovono in piccoli branchi, famelici. Girano in scooter o in auto. Sono violenti, aggressivi e hanno costantemente stampato in faccia un ghigno beffardo. Segni distintivi l’arroganza, la protervia e la divisa da «scarafaggio». Da «Gomorra» (la serie) in poi, quello dello «scarafaggio» è il classico abbigliamento da cattivi: maglia e pantaloni neri aderenti (meglio se sgualciti, va bene anche un jeans molto consumato), berrettino con visiera rigida «a becco» calato sulla fronte, scarpe da ginnastica nere con para alta bianca o d’estate infradito. Capelli a spazzola con doppio taglio. Per completare il look da rapper neomelodico nella declinazione barese, il tatuaggio in codice segreto. Li senti arrivare. Fanno versi inconfondibili, gutturali. Pesante la cadenza dialettale. Aprono la bocca e ti accorgi che le ore passate sui libri sono state veramente poche. La loro scuola è la strada.
Coltivano il mito degli eroi negativi di Gomorra e i social media sono la loro bibbia. Vivono in branco, per darsi coraggio. Indole fancazzista, comportamento aggressivo, migrano da un angolo all’altro del salotto buono della città, dove ci sono le comitive dei «ragazzi bene» e a fine serata tornano a casa con il bottino. In agguato come avvoltoi, selezionano le vittime, cogliendole alla sprovvista, meglio quando sono da sole o in coppia (un ragazzo e una ragazza). Li mettono in mezzo, ringhiano e si fanno dare il cellulare, il bracciale, l’orologio, la felpa se l’outfit è di quelli costosi. Non si fermano alla superficie: «Apri il portafogli, vediamo cosa c’è dentro» ringhiano in faccia ai malcapitati. Prendono il denaro e se ci trovano la carta di credito accompagnano la vittima al bancomat. Arraffato il denaro promettono che torneranno «perché se ci denunci noi sappiamo dove venirti a trovare». Violenze cancellate dalla paura. Restano nelle menti e nelle coscienze di chi le ha subite e teme di formalizzare una denuncia. Finiscono nella voragine del «numero oscuro», ossia dei reati consumati ma non segnalati né rilevati ufficialmente. La devianza dei ragazzi è un processo che a Bari affonda le proprie radici in un meccanismo economico e sociale. La subcultura mafiosa mette in comunicazione giovani e adulti attraverso il ciclo della ricettazione, il racket dei furti di auto e moto, la catena degli scippi, la filiera dei furti e delle rapine e il ciclo della droga.
La movida violenta e quelle urla dal silenzio (il commento di Roberto Calpista)
BARI - Rapina, sequestro di persona, violenza sessuale e minacce. Tutto in un’ora. Crescono e si ingegnano i rampolli eredi degli imperi dei clan mafiosi di Bari. Gente allattata fin dalla nascita alle mammelle del malaffare. Dimentichiamoci i topini degli anni ‘80-‘90, tanto abili nello strappo di collanine e borsette da trasformare in «Scippolandia» quella che voleva essere la Milano del Sud. Altri tempi.
Bari è avanti e si porta ancora più avanti nel delinquere. Mica siamo a Napoli, dove tra una stesa e l’altra, resistono gli affezionati del furto del «Rolex». Mica siamo a Torino, dove si inseguono, seminudi, nordafricani che cercano di affettarsi a colpi di machete. Mica siamo razzisti, dovendo fare i conti, tra l’altro, tanto con la feccia d’importazione quanto con quella endemica.
Siamo a Bari qui e accade dunque che i tre/quattro reati tra i più gravi e odiosi vengano commessi tutti in una volta nei quartieri dove è più facile incontrare ragazzini di buona famiglia con qualche euro in tasca, Poggiofranco, Umbertino, Murattiano.
I boss in fasce, lerci nel dna, prendono di mira soprattutto coppiette, le più fragili, si avvicinano a bordo di auto e ordinano: «Dateci i soldi che avete in tasca». È la rapina. Poi vanno avanti se si accorgono che le vittime scelte hanno il bancomat addosso, li fanno salire in auto e si precipitano allo sportello più vicino per il prelievo. Ed è il sequestro di persona. Stando alle testimonianze, nel tragitto toccano tette e sedere alle ragazze. Ecco le violenze sessuali. Infine le minacce dopo aver fotografato i documenti: «Sappiamo dove abitate».
Le segnalazioni girano nelle chat degli adolescenti e disegnano una movida che, nonostante gli ordini di scuderia, è sempre più da voltastomaco. Ma mancano le denunce, il terrore di ritorsioni paralizza, il ricordo della violenza marchia a vita.
Sappiamo bene che senza quel foglio di carta le forze dell’ordine non possono molto. Manca però anche un adeguato controllo del territorio. E sappiamo bene che non ci sono uomini, i mezzi sono pochi e scassati, i turni, i sindacati, eccetera.
I giornalisti però hanno il dovere di scrivere e denunciare. Anche quando, con il morale un po’ a terra, dopo decenni di mestiere, si scrivono e si denunciano sempre le stesse cose.