BARI - «Non siamo anti-europeisti. Siamo per una Europa delle comunità e dei diritti dei popoli». Francesco Manfredi, prorettore dell’università Lum di Bari, economista aziendale di matrice pubblica, di estrazione bocconiana, è stato tra i 25 accademici (tra cui il giudice costituzionale Nicolò Zanon) che ha partecipato venerdì a Milano al forum su «Sovranità, democrazia e libertà» promosso da Giuseppe Valditara e da Rivista Logos, vicina al salvinismo. Sulla sua scrivania ha il volume Fine della sovranità (Arianna) del filosofo Alain de Benoist.
Professore, fa scalpore la riunione di un gruppo di accademici di rilievo nazionale e internazionale su posizioni patriottiche. Cosa vi unisce?
«Il filo rosso è dato dalla consapevolezza che ci sono valori e storie da tutelare da un lato e valori e storie da rimuovere e cambiare dall’altro. Nessuno di noi critica l’Europa come comune aspirazione dei popoli per la convivenza pacifica, foriera di opportunità, a condizione che si rispettivo e si valorizzino le differenze. Siamo oltre la destra e la sinistra. Superare vecchi schemi ci consente di liberare immense energie intellettuali. C’è da cancellare l’Europa distante dalle aspettative dei popoli. Non è un caso che ci sia un commissario agli Affari economici, già fallimentare da ministro nel suo paese. Se prendiamo i peggiori e li mettiamo a gestire settori complicati, le conseguenze si vedono».
Nei trattati cosa non la convince?
«Ci sono accordi firmati e poi accantonati. La Germania ha una surplus oltre il 6% nell’import-export, ma tutti se ne sono dimenticati. L’accordo sulla redistribuzione dei migranti è disatteso. Lo stesso 3% del deficit conta per l’Italia, per altri no…».
Cresce il malcontento. In che forme?
«La preoccupazione ora si manifesta con “i gilet gialli”, altre volte con i cambiamenti costituzionali in Ungheria. Dovunque ci sono forme di reazione, non solo scientifica, a questo approccio dell’Ue. Da cambiare».
Come?
«La parola identità è uno dei valori fondanti: è necessario ritrovare equilibrio e coerenza tra identità e diritti o dinamiche economiche».
Lei ha coniato la formula della «deglobalizzazione selettiva».
«La globalizzazione, come l’Ue, ha aspetti positivi ed è antistorico immaginare di tornare a 80 anni fa. È un fenomeno da governare, per trarre il meglio: la globalizzazione dei diritti, delle dinamiche economiche che portino alla redistribuzione della ricchezza. Critico invece la massificazione aggregativa del valore che la globalizzazione alimenta».
A cosa si riferisce?
«Ci sono fondi sovrani come quello dell’Arabia Saudita o Black Rock con dimensioni economiche equiparabili ai bilanci di Francia, Italia e Belgio messi insieme».
Che fare?
«Non siamo nazionalisti. È la comunità a dare un’anima ai fenomeni e all’economia dei nostri giorni, restituendo il primato ai valori sull’economia. Sull’immigrazione...».
Cosa non torna?
«L’arrivo di stranieri è considerato un bene perché ci pagano le pensioni: questa è la misura del nuovo schiavismo 2.0. Sei una persona che scappa dalla guerra ma conti perché versi all’Inps. Così si mortificano i valori dell’accoglienza. Nel lavoro si è tornati a calpestare diritti come nell’800. La flessibilità condanna i giovani alla condizione di semi-disoccupazione costante».
Cosa propone il vostro think tank?
«Vogliamo migliorare il processo globale restituendoci un orizzonte più umano tra vita, sicurezza, autodeterminazione e libertà. Il canto delle sirene si combatte con la melodia suprema di Orfeo che può tacitare le sirene stesse».
Le tesi identitarie che - rifiutando il nazionalismo - rilanciano comunità e lavoro