Sabato 06 Settembre 2025 | 02:38

C'era una volta la scuola
più rispettata del mondo

 
GIUSEPPE DE TOMASO

Reporter:

GIUSEPPE DE TOMASO

Domenica 18 Febbraio 2018, 21:45

di GIUSEPPE DE TOMASO

Non si parla pressoché di nulla in questa campagna elettorale, all’infuori delle alleanze che potrebbero o non potrebbero scaturire all’indomani del voto. L’unica cosa certa, infatti, è che si aggraverà l’ingovernabilità, con tutte le conseguenze del caso: paura sui mercati, spread in risalita, ulteriore rialzo del debito pubblico, nuove votazioni eccetera. Non si parla di politiche economiche credibili, di Mezzogiorno, di riforme istituzionali. È vero. Si discute di immigrazione e sicurezza. Ma mai con cognizione di causa e con il rispetto delle posizioni altrui. Solo urla, trovate demagogiche, soluzioni da bar, cifre gettate a casaccio. E non si parla, il che è assai più grave, del problema principale, quello che forse più tocca (e preoccupa) le famiglie e il Paese : la scuola.

Da decenni è in atto un’opera di demolizione, e rottamazione, della scuola e dell’istruzione, un’opera che grida vendetta al cielo. Ogni ministro ha promosso una riforma che ha contribuito a fare appassire il fiore all’occhiello del sistema Italia. Col risultato che sono tutti scontenti: scontenti i ragazzi, scontente le famiglie, scontenti i professori e i dirigenti scolastici, scontenti quelli che poi dovranno assumere laureati e diplomati. 


Abbiamo più volte ricordato, in passato, che la priorità riservata al principio «come insegnare», a danno del precetto «cosa insegnare», ha pregiudicato la qualità dell’insegnamento, in ossequio a un pedagogismo estremo ed esasperato. Diretta emanazione di questa filosofia: lo stravolgimento del principio del «diritto allo studio», sùbito trasformato nella pretesa del «diritto al diploma». Per cui, ogni anno si producono montagne di carte di attestati scolastici, cui spesso non corrisponde una preparazione adeguata al titolo sbandierato.

Del resto, i modesti indici di lettura (giornali e libri) che collocano l’Italia all’ultimo o al penultimo posto nelle classifiche in Europa, non hanno bisogno di particolari esegesi: si studia e si legge poco e male. Aumentano gli analfabeti di ritorno o gli analfabeti funzionali, cui, per fortuna, fa da contraltare una minoranza di fuoriclasse. Fascia, quest’ultima, rilevata dai radar sulla lettura: l’Italia è la nazione in cui si legge meno, ma, paradossalmente, è anche la nazione in cui più alto è il numero dei lettori compulsivi, cioè della minoranza che legge più giornali al giorno e più libri alla settimana. 


Ma il vulnus più profondo inferto alla scuola riguarda il principio d’autorità, ormai del tutto scomparso, peggio dei dinosauri. Cominciò il Sessantotto a picconare il concetto d’autorità. Ma la scuola picconata dal Sessantotto era una scuola parruccona, meritevole di un adeguamento alle sfide della rivoluzione post-industriale. Qualche intervento correttivo era necessario. 
Invece, da allora, si è scatenato uno tsunami mai interrotto. Onda dopo onda, il principio d’autorità ha subìto una devastazione che manco il maremoto che distrusse Messina. Ma nessun consesso civile può resistere a lungo senza regole e responsabilità, che ovviamente richiedono un’organizzazione basata su ruoli e funzioni. E però, se a ruoli e funzioni viene sottratto il carburante indispensabile, ossia la possibilità di far rispettare le regole e di sanzionare chi non le osserva, addio scuola, addio tutto. 


I numerosi casi di violenza contro presidi e insegnanti derivano dall’erosione del principio d’autorità, erosione in atto nel Paese da quattro-cinque decenni. Oggi, un insegnante ha torto a prescindere. Ha torto se rimprovera un alunno, perché così non si fa. Ha torto se mette un brutto voto a uno studente svogliato, perché così lo demotiva. Ha torto se si occupa anche dei bravi, oltre che dei meno bravi, perché così mortifica chi sta indietro. Ha torto se sollecita le famiglie a collaborare nell’educazione di bambini e ragazzi. Ha torto se entra in conflitto con un genitore che ritiene di aver messo al mondo un Einstein, mentre le pagelle dicono tutt’altro.


Alla scuola si chiede tutto e di tutto, adesso, meno quello che dovrebbe fare: educare, insegnare, far studiare, formare buoni cittadini. Alla scuola si chiede un ruolo di supplenza alle carenze (pure affettive) e alle fughe di responsabilità sempre più manifeste nelle famiglie. Ma se la scuola educa, spesso le famiglie diseducano, facendo e insegnando l’opposto di quanto viene inculcato in aula. Nasce di qui la caduta del prestigio professionale di maestri e professori, non solo da uno stipendio di mera sopravvivenza. Sovente sono le famiglie a togliere credibilità e autorità ai docenti, trasformandosi nei sindacalisti dei propri figli. I figli hanno sempre ragione e vanno sempre giustificati. I figli vanno giustificati anche quando non studiano (colpa del Professore, e ti pareva!) perché troppo stressati dalle vacanze appena concluse. Anzi, le vacanze sono sacre, benedette e, nella scala dei valori di molti nuclei familiari, precedono di gran lunga il regolare corso degli studi. Guai a toccare il diritto alle vacanze durante l’anno scolastico. Si rischia di passare per biechi reazionari che si oppongono al progresso che avanza. 


Il brutto è che il permissivismo istituzionale non fa breccia solo nei gangli familiari, ma anche negli istituti scolastici. Per cui nessuno si oppone all’andazzo. I dirigenti sono stretti tra i professori e le famiglie, e c’è sempre qualche tribunale pronto a raccogliere pure le rimostranze più infondate. 


Sembrava, ultimamente, che la scuola dovesse svoltare in direzione della meritocrazia. Non sia mai. Il partito trasversale dello status quo, della conservazione, è entrato in azione e ha bloccato l’ascensore. Non se ne parla proprio. 


La verità è che nessuno vuole prendere in considerazione l’idea stessa che il concetto di studio possa essere associato al concetto di sacrificio e fatica. Pertanto: no ai compiti a casa, no al recupero delle lezioni perse per colpa delle distrazioni familiari, no a tutto ciò che richiede autodisciplina, prima che disciplina. No, in fin dei conti, a chi attenta a un modello di vita leggero, superficiale, scandito di divertimenti, settimane bianche e svaghi vari. 


L’aspetto curioso è che il folto popolo della vita intesa come gioco e piacere, popolo che non accetta una scuola fondata sul merito e sul principio d’autorità, esige, invece, una condotta irrepresensibile e una preparazione degna di un Nobel da parte della classe dirigente di oggi e domani. Buona notte. 

detomaso@gazzettamezzogiorno.it

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)