Che la libertà sia un tema molto caro alla cultura contemporanea è cosa nota. Così come è evidente che, nelle società occidentali, il clima di esaltazione della libertà ha generato una stagione di rivendicazione dei «diritti individuali» che avanza come una valanga inarrestabile. Una passione incontenibile e un’irrefrenabile pulsione spingono alla ricerca di nuovi spazi di libertà.
La discussione che si è scatenata sulla proposta di legge Zan è una prova ulteriore di questo fenomeno sociale e culturale. Non entro nel merito del dibattito. Ciò che mi interessa sottolineare è la «visione» che è alla base di questa continua e pressante rivendicazione di nuove espressioni di libertà. Ragionando filosoficamente, si può dire che l’«Io voglio» nietzschiano ha soppiantato il «Tu devi» kantiano. I diritti hanno prevalso sui doveri. Siamo così lontani anni luce da quando Giuseppe Mazzini scriveva il libro «I doveri dell’uomo» (1860).
Parlando di libertà, ci muoviamo tra la nota espressione della canzone di Giorgio Gaber secondo il quale la libertà non è star sopra un albero, né il volo di un moscone né la ricerca di uno spazio libero, ma è «partecipazione» e le parole di Massimo Gramellini per il quale «la libertà non si può spiegare. Si può soltanto respirare senza pensarci, come l’aria, e come l’aria rimpiangerla quando non c’è più. A differenza dei dogmi, non reclama certezze e non ne offre. I suoi mattoni sono i dubbi e gli errori, gli slanci e gli abusi. I suoi confini sono labili, mobili. E la sua rovina è l’assenza di confini, che le toglie il piacere sottile della trasgressione».
In altri termini, per il cantante la libertà si esprime nel prendere parte a determinare non solo il proprio destino, ma anche quello della società in cui si vive, mentre per il giornalista la difficoltà a spiegare cosa sia la libertà, si scioglie nella facilità di avvertire la sua mancanza. In entrambi i casi, il punto di partenza è sempre l’io personale che, nella prospettiva di Gaber, trova la sua consistenza nell’impegno per l’edificazione del vivere sociale e, nella visione di Gramellini, si compiace del suo volteggiare tra dubbi, incertezze e trasgressioni.
In questo secondo caso, il compiacersi dell’assenza di qualsiasi dogma, assurge paradossalmente a diventare un «nuovo dogma» più invasivo di quelli precedenti perché più accattivante nella sua astratta declinazione di una libertà senza confini o con confini tanto labili da essere facilmente oltrepassati. A nulla serve poi lamentare la pericolosa assenza di confini se essi sono «così liquidi» da sciogliersi come neve al sole fino al punto da «togliere il sottile piacere della trasgressione».
Il riferimento al confine indica la necessità di una linea di demarcazione. Nella sua sapienza teorica e pratica, Archimede sapeva che per sollevare il mondo occorreva avere un punto fermo su cui poter far leva! Oggi, invece, pretendiamo di sollevare il mondo senza alcun punto fermo, ma con sostegni così labili da risultare del tutto inadatti allo scopo. Il punto fermo della libertà per librarsi liberamente va cercato nella dimensione relazionale della persona. La libertà sorge dalla relazione. In quanto dimensione costitutiva della persona, la relazione rende possibile il legame e il rapporto con l’altro e quindi l’esercizio della libertà. Senza la relazione viene meno anche l’idea stessa di libertà.
A questo proposito vale la pena di citare quanto scriveva Hegel per il quale l’idea di libertà trova il suo fondamento nella visione ebraico-cristiana. «Quest’idea ─ scriveva il grande filosofo tedesco ─ è venuta nel mondo per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, l’uomo è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà» (G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze, Laterza, Roma-Bari 2009, § 482, p. 474). In altri termini, l’assolutezza della libertà è data dall’assolutezza della relazione.
Su questa linea di pensiero si pone anche H. Arendt quando scrive che «con la creazione dell’uomo il principio della libertà ha fatto la sua comparsa sulla terra» (H. Arendt, Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, Ombre corte, Verona 2004, p. 68). L’idea della creazione e il mistero della nascita costituiscono il fondamento e il luogo originario dove la libertà sorge e si manifesta.
Il punto decisivo di questa visione, per certi versi ovvio e scontato, - ma nel nostro tempo anche l’ovvio sembra fare problema - è che nessuno si è originato da stesso, ma trova la sua origine da qualcuno che ha reso possibile la sua esistenza. La libertà è sempre situata e la sua possibilità di librarsi in uno slancio infinito è possibile per aver ricevuto ciò che liberamente persegue.
Nella sua dimensione essenziale, la persona umana è dono che, a sua volta, è capace di farsi dono. Ricevere, accogliere e offrire il dono che si è, è la sostanza stessa della libertà. Lo spazio che altri hanno creato per rendere possibile la mia esistenza è il compito offerto all’esercizio della mia libertà. Da qui nasce l’esigenza di fare spazio ad altri, la disponibilità a ritirarsi, a fare un passo indietro, a consentire ad altri di avanzare sulla scena. La scelta di diminuire rende possibile all’altro di crescere e prendere il proprio posto nel mondo senza ledere ad altri la possibilità di agire, anzi sollecitando e motivando a farlo in una catena ininterrotta di dono ricevuto e condiviso che, espandendosi sempre più, genera una libertà personale e partecipata. In questo quadro, lo Stato ha il compito di fare leggi che bilancino i diritti e i doveri e di promuovere i diritti di tutti senza ledere quelli di alcuno, in modo particolare il diritto alla libera espressione della propria visione del mondo.
Il criterio di riferimento dell’uomo moderno, invece, è espresso con efficacia dall’immagine del «rizoma» richiamata dai due filosofi francesi G. Deleuze e F. Guattari. Si tratta dell’agire senza radici, senza legami, senza finalità, senza alcun condizionamento interno ed esterno e, per questo, in piena libertà. In questa prospettiva, risultano illuminanti le parole di Osho quando afferma che «l’uomo libero è come una nuvola bianca. Una nuvola bianca è un mistero; si lascia trasportare dal vento, non resiste, non lotta, e si libra al di sopra di ogni cosa. Tutte le dimensioni e tutte le direzioni le appartengono. Le nuvole bianche non hanno una provenienza precisa e non hanno una meta; il loro semplice essere in questo momento è perfezione».
Per certi versi, questa affermazione sembra riecheggiare le parole di Gesù a Nicodemo: «Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete rinascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3, 7-8). L’immagine della nuvola bianca e del vento sembrano delineare la stessa idea di libertà. In realtà, per Gesù, l’essere e il diventare liberi come il vento, presuppone una nascita, anzi una rinascita, cosa che non è contemplata dall’immagine della nuvola bianca. Essa ama solo volteggiare liberamente nel cielo, come un aquilone che, spezzato il filo che lo teneva agganciato alle mani del guidatore, vola sempre più in alto fino a dileguarsi in cielo e a scomparire definitivamente alla vista. Così l’assenza di fondamento e di confine rende la libertà una realtà sfuggente e inafferrabile, assoggetta alle sensibilità e ai desideri sempre cangianti dello «spirito del tempo».
*Vescovo Ugento - Santa Maria di Leuca
















