Il G7 in Cornovaglia ha tracciato il solco delle linee politiche ed economiche italiane per i prossimi mesi. A guidare l'aratro, un Mario Draghi sempre più incisivo in termini di politica estera, quasi a voler compensare il teatrino nazionale con i partiti concentrati a misurarsi nei rapporti di forza e a marcarsi nelle dichiarazioni elettoralistiche.
Queste nuove linee politiche guardano alla Cina, che il presidente del Consiglio non ha esitato a definire «un’autocrazia», aggiungendo che fa parte di quei Paesi del mondo che non rispettano regole e diritti civili. E non si discute solo di questioni umanitarie. Trattamenti economici del lavoro, regolamentazione del settore imprenditoriale, rispetto dei paramenti sull'inquinamento ambientale sono temi che hanno a che fare direttamente con la concorrenza internazionale, sbilanciata quando a competere sono settori omologhi ma con vincoli molto più stringenti per le industrie occidentali, gravate da obblighi ignoti in Paesi come la Cina.
Adesso Draghi con diplomatico eufemismo afferma che «riesamineremo il nostro accordo con la Cina sulla Nuova via della seta», e si può stare certi che il protocollo firmato dal primo governo Conte nel marzo 2019 sarà quantomeno bloccato e riproposto a Pechino con obiettivi differenti. Anche perché differenti sono le condizioni geopolitiche globali.
La Via della seta è un imponente programma pluriennale di investimenti cinesi rivolto al mondo occidentale per un valore equivalente a 900 miliardi di euro. Certamente non un regalo. L'interesse evidente è creare infrastrutture e canali commerciali per rafforzarsi su quello che resta il mercato più ricco del globo, un’Europa ancora capace di assorbire le produzioni cinesi. Solo l'Italia nel G7 si è impegnata due anni fa con un memorandum, guardata con sospetto dai partner storici: Usa, Germania, Francia, Gran Bretagna, Giappone e Canada.
Ora Draghi, rimettendo in discussione il percorso del primo governo Conte, ha voluto riallineare Roma alle restanti cancellerie occidentali in una politica comune segnata anche dalla pandemia. Biden guida la schiera dei leader che chiedono alla Cina di fare chiarezza sull'origine del virus che ha piegato il mondo. Un'operazione trasparenza a cui la Cina non è abituata. E cominciare dal virus è un buon modo per fare pressione anche sui fronti commerciale e industriale, su brevetti e ambiente.
Da un punto di vista economico, Draghi gioca abbastanza sul velluto. Nel 2019, un accordo economico-commerciale che promettesse, a regime, un giro d'affari cinese di venti miliardi di euro (tanto vale la Via della seta per l’Italia, indotto compreso), pareva ossigeno indispensabile. Ma oggi, con gli oltre 200 miliardi - che possono anche raddoppiare - in arrivo dal Recovery fund, è evidente che la fuga in avanti di due anni fa non si giustifica più. A maggior ragione perché l’alleanza Lega-M5S reggeva quel governo sull’onda elettoralistica di un antieuropeismo oggi fuori moda.
Guardando la Via della seta dalla prospettiva del Sud Italia, poi, c’è da dire che riscrivere quel memorandum sarebbe anche una buona occasione per riequilibrare gli investimenti. I 29 punti del documento Italia-Cina toccano tutti i settori (industria, commercio, finanza, turismo, energia, ricerca), tra impegni diretti dei governi e patti tra multinazionali che da parte italiana non lasciano nessuno indietro: giganti con «testa» e interessi prevalenti al Nord come Eni, Enel, Ansaldo, Terna, Fincantieri, Snam, Italgas, Ferrovie ma anche Unicredit e Intesa Sanpaolo. Progetti per tutti, infrastrutture (ponti, strade, centrali elettriche, fabbriche) lungo il cammino da Pechino all’Europa passando per il Medio Oriente per poi approdare ai porti europei di Genova e Venezia, veri hub delle merci cinesi e punto di partenza per quelle europee verso l’Est del mondo. Merci e ricchezze che il Sud Italia vedrebbe solo passare da lontano.