In lui “ciò che è interiore diventa visibile, udibile, afferrabile con le mani. Ovunque si passa direttamente dalla corporeità manifesta all'interiorità dell'anima”. Sud per lui significa visibilità dello spirito, solarità incarnata, lucentezza tangibile del pensiero. Insomma realismo spirituale. Nella sua raccolta di saggi dedicati a Dante, Guardini ritiene il poeta “un vero pensatore. Nell'unione di un pensiero ardito che penetra tutta l'esistenza, di una volontà di dare un ordine a questa esistenza e di un'arte sovrana”, sta la sua originalità. Ma il tratto “meridionale” di Dante coincide per Guardini con il senso cristiano dell'incarnazione: è costante nella visione dantesca l'intreccio tra anima e corpo, tra spirito e carne, tra storia e grazia, tra tempo ed eterno, il suo voler “dar corpo alle idee” e fondare la sua visione sull'amore. Tutto ciò si esprime nella sua “dottrina del cuore”, che nulla ha a che vedere con la versione sentimentale moderna: il cuore ha in Dante “il rigore dello spirito e la ricchezza di possibilità della materia. In esso lo spirito e la materia d'incontrano...Nel cuore nasce l'uomo”.
L'inattualità fu il destino di Dante e non solo nel suo tempo ma anche nei tempi che ne seguirono; anche quando fu onorato come altissimo poeta Dante fu sempre considerato al di là del tempo, un modello quasi celeste, un archetipo platonico che desta ammirazione ma non suscita emulazione. E non solo per la sua inarrivabile grandezza. Rodolfo Quadrelli notava che Dante è rimasto senza eredi, perché nella nostra letteratura ha prevalso il criterio dell'imitazione su quello della tradizione, e Petrarca è poeta che si imita più facilmente di Dante (cit. p.32). Da qui il petrarchismo come tendenza letteraria ma non il dantismo, se non come esegesi critico-letteraria dell'opera di Dante. Infatti nel linguaggio corrente petrarchista è un poeta che imita Petrarca o è nel suo solco poetico; dantista è invece lo studioso di Dante. Questa differenza la dice lunga sul diverso rapporto non solo tra i due poeti e la nostra letteratura, ma sul ruolo unico e imparagonabile ma al contempo isolato e in disparte di Dante.
Il tema sollevato da Quadrelli va ben al di là della letteratura e tocca un aspetto cruciale del rapporto tra Dante e i secoli che verranno; è quello che potremmo definire il paradosso di Dante, padre riverito e abbandonato, principe in solitudine della nostra civiltà, capostipite di una tradizione senza tradere, riconosciuto da tutti ma seguito da nessuno. Non la sua teologia, non la sua filosofia, non la sua visione politica e civile ebbero seguaci e sviluppi nella storia e nella cultura romana e cristiana. La sua visione metafisica, la sua teologia civile e politica, la sua concezione del cosmo, il Sacro Romano Impero, il Veltro, l'Amor cortese e i Fedeli d'Amore, la sua esperienza estatica ed esoterica: c'è qualcosa di Dante che abbia mai avuto attualità, corso storico, realizzazione, se non nell'ispirazione dantesca e nelle sue pagine? Citato spesso, a volte pure con venerazione, ma la visione organica che fu di Dante, situata in quell'irripetibile crocevia tra l'antichità, il medioevo e l'umanesimo che poi verrà, non fu ereditata in fondo da nessuno. In questo senso, un gentiliano in disparte come Andrea Emo parlò di destino tragico dell'Alighieri. Dante, scrisse Emo in un suo quaderno uscito postumo, è un profeta del passato o un profeta mancato che canta “l'orazione funebre dei suoi ideali, la fine luminosa di un dramma”, avverte inconsciamente il fallimento della sua visione e degli universali a cui credeva ma finisce col sublimarla e trasfigurarla nella sua lirica; perciò “la sua poesia era così alta, era la perfezione di una metamorfosi del fallimento in una immortalità perfetta” . Ovvero, la sconfitta della sua visione profetica si trasforma in lievito per la sua poesia e per la sua grandezza. Da quella sconfitta di profeta e visionario nasce il suo trionfo come poeta destinato a splendere in bellezza nei secoli.
Dante fu un glorioso sconfitto dal suo tempo e anche dalla storia che ne seguì. Fu ammirato nella sua altezza inarrivabile e mai assunto a modello compiuto, non solo in letteratura, ma anche nella vita religiosa e civile, nella sfera filosofica e in quella politica. Non fece scuola, non ebbe seguaci anche se la solitudine degli ultimi tempi fu alleviata da un cenacolo di giovani, compresi i suoi due figli, Pietro e Jacopo, che restarono intorno a lui. Dante illuminò i posteri, ma in fondo non li formò, non li indirizzò. Fu molto citato ma poco ascoltato. Fu esiliato nella poesia, incensato nella letteratura, ma fu posto su un piedistallo inaccessibile che lo teneva lontano dal mondo e sterilizzava la sua incidenza effettiva; dimenticato nel suo pensiero e nelle sue aspettative.
Per questo affrontare oggi il Dante in prosa è anche fare i conti col Dante che abbiamo rimosso e imbalsamato nella teca della letteratura, imprigionato in un castello medioevale. Il suo esilio si protrasse nei secoli e nei mondi diversi, andò ben oltre l'esilio vissuto, temporale e spaziale, dalla sua Firenze. L'esilio post-mortem fu perfino più doloroso di quello amarissimo, subìto in vita.
Dante fondò l'Italia ma l'Italia gli voltò le spalle. E non solo lei. Ciononostante, o forse proprio per questa sua viva e luminosa inattualità, per questa sua regale solitudine, siamo grati in eterno a Dante perché, come lui disse del suo Maestro Brunetto Latini, “m'insegnavate come l'uom s'etterna”. Dante Alighieri ci condusse con grazia divina, umana irruenza e angelica bellezza sul cammino dell'eternità. (Santa Pasqua di Quarantena, 2020)
Marcello Veneziani
Il testo sopra riportato è un estratto del libro Dante nostro padre, uscito in questi giorni da Vallecchi, che contiene un saggio di Marcello Veneziani sul pensatore celeste e fondatore d’Italia e un’antologia critica, curata da Veneziani, sull’amore, la sapienza, la lingua, la politica e la madreterra, in cui ci sono le migliori prose dell’autore della Divina Commedia.