Si dice: la pandemia è peggio di una guerra e, come accade nelle guerre, l’unità nazionale è fondamentale. Traduzione: governo e opposizione devono smetterla di darsele di santa ragione, meglio abbracciarsi sul ring come due pugili al termine dell’ultima scazzottata. Ergo: avanti tutta verso un esecutivo bipartisan, verso un governissimo con «tutti dentro», anche perché - si aggiunge - bisogna ridare centralità al parlamento, che, nei periodi di emergenza, viene emarginato e mortificato senza pietà.
D’accordo. Le democrazie o sono parlamentari o non sono. Ci sono, è vero, democrazie presidenziali, basate sull’elezione popolare del Capo dello Stato, ma anche in questi sistemi, vedi negli Stati Uniti, la funzione delle assemblee legislative viene esaltata senza se e senza ma. Quando ciò non succede, ossia quando il parlamento conta poco o nulla, ad esempio nei modelli presidenziali del Sud America, parlare di democrazie è quanto meno azzardato. Più corretto sarebbe adoperare la definizione di democrature, o di democrazie autoritarie.
Ma torniamo all’Italia. Da tempo, già da prima che il virus regalatoci dalla Cina provocasse l’effetto di una bomba tra i vari poteri dello Stato, si percepiva un lento, inesorabile travaso di poteri dal legislativo all’esecutivo. Governo sempre più mattatore a colpi di decreti. Parlamento sempre più impotente sotto i colpi dei provvedimenti ministeriali. Il fattore emergenza accentuava questa rimodulazione dei poteri a tutto vantaggio di Palazzo Chigi e dicasteri.
Ma davvero si chiama governo il vero asso pigliatutto, il decisore, il beneficiario di ultima istanza di questa condizione di emergenza permanente in cui sembra piombata (non soltanto) l’Italia, specie ora che il Coronavirus ha trasformato i cittadini tutti in (potenziali) malati da assistere?
Certo, le emergenze, tutte le emergenze, tendono a spostare il potere reale dal parlamento al governo. Ma, si sorvola sul fatto che, a stretto giro di posta, il potere reale finisce per trasferirsi sempre dal parlamento all’amministrazione. Alla fine della fiera diventa quest’ultima la padrona, l’unica interprete ed esecutrice di quella «legislazione motorizzata» che caratterizza i momenti di conflitto militare o di allarmi socio-sanitari, come carestie e pandemie. L’amministrazione, non solo in democrazia, è l’unico potere che non cade mai. Chi, nei casi estremi, ha la fortuna di disporre di un ceto amministrativo di buon livello, può consolarsi in attesa di tempi migliori. Ma chi non dispone di questa fortuna, chi deve confrontarsi con un’amministrazione iper-politicizzata, o con un’amministrazione ossessionata dal criterio della procedura anziché dall’obiettivo del risultato, non può fare altro che farsi il segno della croce. Sì, perché fare le leggi (poche e chiare, possibilmente) è importante, ma ancora più importante è sapere chi le suggerisce, chi le scrive e chi le applica. Tre funzioni che incorporano un’unica risposta: l’amministrazione. È l’amministrazione il fulcro di ogni decisione e di ogni sua esecuzione. Altro che questioni di collaborazione, competizione, scontro tra governo e parlamento. Discutere di prevaricazione del governo sul parlamento o, in alcuni casi, di rivincita di quest’ultimo sul primo, può portare acqua al mulino dello scontro politico, può servire ad arroventare i già accesi confronti televisivi, ma di sicuro non contribuisce a un’operazione profilattica protesa alla verità.
È l’amministrazione la vera primadonna di ogni stato d’eccezione tipo quello in cui si ritrova lo Stivale. Ma, purtroppo, il Belpaese non può affidarsi né a una tecnostruttura iperprofessionalizzata sulla falsariga dell’amministrazione pubblica francese, né a una tecnostruttura responsabilizzata sul modello della tradizionale disciplina tedesca. Ecco perché anche il miglior governo, in Italia, rischia sempre di annegare sull’onda dell’insufficienza amministrativa, sia progettuale sia fattuale.
La vicenda del Mes è, come si suol dire, emblematica. Siamo sicuri che il no ai soldi europei che servirebbero a rianimare una sanità in affanno (eufemismo) sia esclusivamente frutto di un pregiudizio ideologico anti-europeo? E se invece fosse figlio della consapevolezza che l’amministrazione italica, soprattutto a livello periferico, non è in grado di confezionare e presentare progetti credibili degni di essere finanziati?
Giovanni Giolitti (1842-1928) fu il primo uomo di governo a comprendere l’importanza, per il Paese, di un’amministrazione di alta qualità. Tanto lo statista piemontese, «ministro della malavita» per Gaetano Salvemini (1873-1957), fu cinico e spregiudicato nell’ingaggio e nella selezione di parlamentari e sindaci, tanto fu rigoroso e attento nell’arruolamento di collaboratori e burocrati. Giolitti, che proveniva dall’amministrazione, pescò il meglio dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei Conti. Personaggi come Carlo Schanzer (1865-1953), Augusto Ciuffelli (1856-1921), Felice Barnabei (1842-1922), autentici fuoriclasse, contribuirono a realizzare un felice «progetto burocratico di governo» che fece arrossire qualche pasdaran del «primato della politica», ma che di sicuro dotò l’Italia del tempo di una legislazione assai moderna, all’avanguardia persino rispetto alle altre democrazie europee.
All’Italia odierna manca quel tipo di amministrazione. Manca, per giunta, nella fase più drammatica della storia recente. Governo, parlamento, propositi di unità nazionale, ragionamenti condivisibili e propositi auspicabili. Ma l’amministrazione «giolittiana» dov’è?