Le parole della vigilia dell’Umile Gasperini - per tutti ormai solo Gasp - erano da scolpire: «Non perderemo, o vinceremo o impareremo». Non hanno vinto. Hanno imparato, hanno insegnato.
Dentro la superficie dello stadio della Luce di Lisbona non è mai stata in ombra l’altra dimensione del calcio, quella che interpreta la partita come rito catartico e manifestazione d'orgoglio.
La storia è stata fatta lo stesso. Perché l'Atalanta ha interpretato i quarti di finale consapevole che la Coppa dei Campioni (al bando il floscio anglicismo Champions) fosse anche la migliore vetrina per comunicare la voglia di riscatto di una Bergamo piagata dal Covid-19 e piegata dal dolore. «Giocheremo anche per la nostra gente e per la nostra città», aveva assicurato, l’allenatore, prima della sfida. Gasp, quello col sorriso mai in ferie. Quello che quando cominciò ad allenare i bambini dalla Sisport scriveva in una cartellina gli esercizi da far fare. Quello che, catapultato a Sud senza staff sulla panchina del Crotone senza campo di allenamento se non a trenta chilometri, cercò in un liceo classico il «prof» di ginnastica da trasformare in preparatore atletico (oggi ancora al suo fianco). Ieri sera il faraone della panchina dell'Atalanta ha dimostrato quel che ha sempre saputo: il calcio non è solo sport, ma un fatto che parla comunque, quando a praticarlo è una squadra vitale e coinvolgente nella coscienza collettiva. «Il pallone non restituisce, non cancella, ma può trasmettere una gioia». Che non ha niente a che fare con vittoria e sconfitta, ma con uno stato di grazia. Capace di esprimere un orgoglio di comunità.