C’era una volta il piazzista da piazza. Era un venditore non stanziale: andava, cioè, in giro per i paesi, anzi, per le piazze dei paesi, sdegnando vicoli e stradicciole, per piazzare la merce. In Puglia allignavano floridamente e si dava il caso di imbattersi nella loro perentoria invadenza. Svolgevano, comunque, una preziosa funzione, quella di raggiungere il cliente, il consumatore, diremmo oggi, a domicilio, nel suo ambiente, nella confidenziale area domestica, esonerandolo dalla fatica di muoversi, spesso viaggiare per raggiungere la merce.
Era la merce che lo visitava con famigliare consuetudine. La cosa aveva un doppio vantaggio, se si aggiunge quello per il venditore che riusciva a piazzare articoli che, forse, messi, lì, a impigrire nella vetrina di città nessuno avrebbe degnato di attenzione. Quella del piazzista era un’arte sopraffina che coniugava astuzia imbonitrice, abilità oratoria e buona salute, istrionismo e competenza commerciale. Non senza qualche veniale mancanza di scrupoli. Se la merce non risultava convincente, il prezzo retribuiva la performance, diciamo così, artistica, istrionica. Già, perché l’abile girovago sapeva intrattenere il pubblico, un misto di probabili acquirenti, occhiuti concorrenti e sfaccendati, quegli sfaccendati che sono tanto immancabili nelle piazze da aver meritato, in provincia di Bari, il vernacolare appellativo di “Stangachiazz”. Tutti riconoscono ai Baresi una indiscussa abilità nel commercio, non nei commerci. Voglio dire che il plurale rende ambigua la parola. L’eloquenza riconosce una carica polisensa a quei “commerci”. Questo plurale, se mai, meglio si adatta a piazze più vaste, ambiti e vicoli informatici, agora elettroniche, dove si seminano quelle pratiche spettacolari che costituiscono la, cosiddetta, politica virtuale.
Il piazzista moderno, fino a ieri, visitava il commerciante sedentario nella sua bottega negoziando forniture, sollecitando approvvigionamenti, e accaparrandosi quegli “ordini” che si tramutano in pingui percentuali. Oggi il dettagliante naviga in Internet, osserva, sceglie, ordina e paga seduto nella solitudine triste della sua poltrona di ciberbottegaio. Vuoi mettere con il fascino dell’affabulatore vociante inerpicato sul trespolo del camioncino? La modernità si affacciò con l’adozione degli altoparlanti che gracchiavano quella picaresca eloquenza frammista a borborigmi e scaracchi. Ricordo che era comune l’adozione di un fazzoletto che incapsulava il microfono per proteggerlo dal profluvio di faticate salivazioni, esito inevitabile di ansanti foghe oratorie. Il commercio moderno ha relegato il piazzista nel ruolo di visitatore dei commercianti e nelle piazze non si vedono più.
E anche la politica ha rinunciato da tempo al piazzista comiziante avendo a disposizione la gigantesca piazza mediatica della televisione, prima e della “rete” oggi, nel cui vociare inconsulto, troppo spesso, annegano inutilmente la ragione e il sereno confronto. Qui i venditori non mancano, ma hanno la caratteristica di vendere surrettiziamente, dando mostra di comprare. Di comprare l’attenzione e la fiducia del pubblico. A prescindere dalle idee che sono diventate un accessorio, qualche volta scomodo è imbarazzante. La democrazia, svuotata dalla contesa ideologica, rischia di ridursi a pratica condominiale nell’immane falansterio della attribuzione del potere. Venghino, signori, venghino! Invitano i nuovi piazzisti che propongono fantasiose alleanze e contraddittorie strategie, pur di arruolare i consensi, senza neanche prodursi nello sforzo dell’eloquenza seduttiva del popolare istrionismo di un tempo. Altri mercati, altre piazze, altro popolo. Ma questi?
Di fatto vendono stili di vita e orientamenti di costume che finiscono per regolare e imporre le scelte elettorali. Le scelte politiche non interessano molto ai venditori. Dalla piazza del mercato informatico-televisivo, dalla immane bancarella dei “media”, però, tracima da ogni latitudine del “quadro politico”, una sorta di versione moderna del piazzista: una interpretazione attuale della partecipazione popolare che era della piazza cittadina. La chiamano “Social”. Il termine definisce una specie di civettuola tendona balneare: spesso è usata per mansioni necessarie al disbrigo della democrazia di base, come raccolta di adesioni a referendum e elezioni primarie, ma altre volte cambia la musica. Sotto il gazebo dei “social” si installano agitatori, militanti e supporters di tipo calcistico che adescano la folla dei passanti per ottenere quel simulacro di partecipazione simbolica che è solo l’attenzione. Niente comizi, solo qualche allocuzione vessatoria della pace dello shopping e molti slogan. Non c’è una vera e propria merce da esitare, se non quella preponderante del corpo mistico dei leaders e del fascino che lo correda. La campagna elettorale è diventata eterna, comincia molto prima della campagna elettorale vera e propria. Appena eletto il principe piazzista si agita nella piazza mediatica già pensando al prossimo mercato dopo cinque anni. Penso a Trump, ma, anche, alla minuscola vita politica dei nostri comuni e regioni.
Manca, però, spesso, l’oratore-venditore vero e proprio. Il candidato esaurisce la sua funzione carismatica nel lungo corso della amministrazione. E, a volte, la campagna elettorale, resa esausta dalle lunghe, defatiganti trattative, dalla invenzione della alleanze, anche le più fantasiose, dalle strategie che si consumano prima ancora ai tavoli delle riunioni che sulle tavole del palcoscenico politico, diventa uno scontato contratto a tempo determinato.
Ecco, dunque, che, talora, la contesa dimentica le idee iniziali per difendere le quali è cominciata e residua nel semplice apparire, esonerando il candidato dal compito di usare logica e parole per convincere. L’atto puro della vendita si consuma commercialmente, anche in questa brutale versione della politica popolaresca e non popolare, con l’epifania dell’oggetto della venerazione, quello in cui si trasferisce, finalmente liberandosi dall’onere di pensare e scegliere in prima persona. Si diventa piazzisti di se stessi.
















