Far riferimento alla storia delle pandemie è suggestivo. Da Tucidide al recentissimo The End of October di Lawrence Wright (2020), passando per Boccaccio, Mary Shelley e Margaret Atwood, svariate narrazioni di epidemie hanno veicolato – o riformulato – miti apocalittici ancestrali, sia di matrice cristiana che classica, sumerica, nordica o vedica. Gli esempi sono, dunque, tanti e tutti raccontano la tragedia, mentre più rare sono le narrazioni sulle difficoltà al ritorno alla normalità. Nei nostri giorni, ancora dentro la scenografia di un paese sospeso nell’incertezza, il racconto è a tinte incerte. «Si riparte», è uno slogan traballante per il comportamento contraddittorio anche di noi cittadini. Lo dimostrano le mascherine appese a un orecchio, modello pirati del nuovo millennio, o ancor più, posizionate sul mento. Gesti diffusi quanto naturali che ritraggono un Paese in tenace equilibrio tra allarmismo e superficialità. Inoltre, alcuni paragoni non aiutano a rischiarare l’orizzonte. La questione su come mai si siano aperte le discoteche e si siano chiuse le università ha un sapore alquanto populista. Si impongono alcune precisazioni: le discoteche sono aziende private, spesso stagionali, con un vasto indotto ed è giusto porsi il problema dei lavoratori del settore. È una posizione del tutto plausibile senza che per questo si debba alludere a una scala di valori.
Le università pubbliche, invece, sono rimaste aperte nei limiti consentiti dalle leggi, dalle norme e, non dobbiamo negarlo, dalle forme di modernizzazione delle loro strutture su cui i governi dovrebbero avere il coraggio di fare autocritica per l’esiguità delle risorse riservate. Gli stabili e gli edifici delle università e delle scuole sono spesso gli stessi anche se, negli anni, le istituzioni pubbliche di ricerca e formazione hanno affrontato interventi di make-up legislativo tutti a costo zero. L’ultima riforma del sistema universitario è la legge Gelmini del 2010 ed è quindi necessario, a distanza di dieci anni, sottoporla a una valutazione. Non è certo colpa della legge Gelmini la pandemia, ci mancherebbe. Forse è opportuno, però, ricordare che quella riforma, occupava le università senza preoccuparsi della università: stabilì una trasformazione strutturale senza prevedere alcun investimento. In quel tempo le realtà universitarie furono così costrette a ridisegnarsi, ma, trovandosi senza risorse, furono solo scompaginate. L’esito è stato disastroso: le strutture cambiarono nome e funzioni senza che ciò andasse a vantaggio di una qualsivoglia modernizzazione. Le tante e diverse biblioteche universitarie, ad esempio, narrano bene quel passaggio. Gli edifici, spesso d’epoca, sono rimasti gli stessi benché siano mutati i nomi, le funzioni, le responsabilità e sia aumentato lo stesso patrimonio bibliografico. Spazi più angusti anche per l’incremento degli accessi rispetto agli esigui numeri per cui furono pensati e costruiti ben oltre settanta anni fa. Solo arrangiamenti pertanto. Le biblioteche sono importantissime per le città universitarie, raccolgono studenti e studiosi da tutto il mondo. Gli stessi che la sera potrebbero andare in discoteca.
Il numero degli studenti è aumentato, pur se sempre sotto la media europea, e sono invece contingentati gli investimenti in strutture e persino del personale nel settore della ricerca e della formazione; ciò conduce, ovviamente, alla conseguente privazione per il Paese di quel potenziale necessario a farci diventare concorrenziale nel mercato globale. Oggi salutiamo con un plauso gli sforzi del ministro Manfredi che è riuscito, sulla spinta di una necessaria modernizzazione del paese, a inserire il reclutamento di un significativo numero di ricercatori nei prossimi anni. Sarebbe auspicabile procedere – sono sicuro che il ministro ci stia pensando – a scelte più coraggiose e radicali, che tra l’altro non avrebbero un costo elevato per il bilancio del Paese: una potrebbe essere quella di prevedere nella prossima finanziaria un piano di reclutamento affinché tutti coloro che sono in possesso di abilitazione nazionale, vero e proprio concorso, possano, a tutti gli effetti, assolvere alle funzioni di professori. Fuori da qualsiasi ipocrisia: quei ricercatori svolgono già le mansioni di professori, ma sono bloccati dalle scarse finanze degli atenei. Perché lasciarli in panchina se il Paese annovera un fabbisogno? Aumentare il numero dei professori non è secondario se si considera che le aule sono obsolete e, spesso, non riescono a contenere il numero degli studenti ed è necessario progettare nuovi spazi per la formazione e la ricerca. Inutile recitare che oggi solo la conoscenza potrà farci uscire dalla crisi se non si fanno scelte consequenziali ed è opportuno dare ai cittadini un segnale concreto e coerente sull’importanza della formazione e della ricerca per il futuro del nostro Paese. Formazione e ricerca sono la soluzione. Lo dimostra la storia tragica della pandemia che, sarà bene rammentarlo, rimanda a crisi, ossia etimologicamente a scelta, cioè a punto di svolta, momento di separazione e di discernimento. Oggi l’assenza di un racconto chiaro e condiviso del futuro ne è la prova.
Due proposte, quindi, partendo da una inezia. Paragonare aziende private spesso di giovane costruzione ad istituzioni collocate in vetuste per quanto belle strutture non serve e falsa la prospettiva. Più utile invece sollecitare governi nazionali e regionali, competenti sul diritto allo studio, a interrogarsi sulla necessità di investire nell’ammodernamento delle strutture universitarie. Alla ipotetica crisi delle immatricolazioni si risponde in modo più convincente con interventi strutturali e non con soluzioni assistenziali a tempo. A Bari invece di una caserma in piazza Sant’Antonio, ad esempio, si dovrebbe immaginare un polo bibliotecario universitario che raccolga l’ingente patrimonio bibliografico per far studiare giovani e meno giovani in condizioni civili. Dopotutto se la pandemia, come si è detto, è stata una guerra e il nostro esercito era formato da scienziati e studiosi, sarebbe un bel segnale allinearsi ai tempi trasformando una caserma in una biblioteca. Lo imporrebbe la coerenza del linguaggio. Ecco allora le due proposte per il governo da porre sul tavolo Stato-Regioni: reclutiamo tutti i nuovi professori, ampliamo il numero delle aule e trasformiamo alcune delle caserme in biblioteche e laboratori. Sono quelli i protagonisti e i luoghi dove si potrà stilare a tinte nitide un racconto del post covid-19.