Urla nel silenzio. E' il nuovo calcio, il calcio ai tempi del Coronavirus. E così sarà ancora per un bel po', fino a quando il subdolo nemico non sarà definitivamente vinto. Messo da parte. Distrutto. Fino a quando un vaccino non farà giustizia e riconsegnerà il mondo alla sua normalità.
E, quindi, anche il calcio. Con la sua gioia naturale, i suoi colori, la sua «contagiosa», unica, forza attrattiva. Collante di amore e purtroppo anche odio. Ma collante di vita, anche quotidiana.
Nostalgia. E pure canaglia. E' quello che le immagini tivvù ieri sera hanno lasciato trasparire. Salutiamo il ritorno del pallone, di due squadre e ventidue e passa giocatori che se lo contendono, salutiamo il ritorno a una simil normalità. Tutto vero. Ma vero, pure, è che il calcio a porte chiuse è triste. Fors'anche inquietante. Un'altra disciplina. Perché il calcio è spettacolo, in vero non soltanto il calcio ma tanti altri sport. E lo spettacolo è del pubblico, dei tifosi e di chi invece ha solo voglia di divertirsi guardando.
Il calcio è musica, danza e armonia. E non c'è niente di più allegro della sfera che rimbalza. Parole sante. Sapete chi lo diceva? Un tale chiamato Pelé. Ma così è un calcio asettico, un calcio dalle emozioni ovattate, con la sfera che rimbalza sì, ma fra vuoto e silenzio, <spinta> dalle voci dei giocatori e da quelle degli allenatori. Troppo poco. Non c'è più l'urlo feroce del pubblico che regala adrenalina, il dodicesimo uomo in campo di questi tempi è soltanto un <dodicesimo> e basta. Neppure seduto in tribuna, o in curva.
Il football è come il matrimonio. Bryan Clough, il mitico allenatore che condusse il Nottingham Forest alla vittoria di due consecutive Coppe dei Campioni, non aveva torto. Il calcio è in effetti un matrimonio. Fra chi produce sul campo e chi va allo stadio per godere della produzione. E' un legame quasi sentimentale. Che consente poi alla partita stessa di decollare, viaggiare, planare sul novantesimo minuto.
La Coppa Italia, a metà fra banco di prova e ripartenza, è anche e soprattutto l'aperitivo della Serie A. Di un campionato praticamente invisibile giocato in stadi parenti stretti di città fantasma. Le <porte chiuse> di fatto andranno ad azzerare il fattore campo. Principio sul quale è fondato l'intero ordinamento calcistico, eccezion fatta per il Mondiale, gli Europei o le finali delle Coppe. Il campionato di calcio in tutto il mondo viene celebrato con il 50% delle partite in casa ed il restante 50% in trasferta. Con tutti i contorni del caso. Tifoseria più calda, tifoseria meno calda, accoglienza tiepida.
E' sempre stato questo il bello e l'impossibile del pallone. Squadre che si lasciano trascinare dalla forza del loro pubblico, capaci di rimonte o partite storiche. Il Lecce che blocca in casa al Via del Mare Juve e Inter è un esempio lampante di quanto possa effettivamente contare il <fattore campo>. Di quanto una <grande> possa trovare difficoltà in trasferta sul campo di una <piccola>. No, non sempre la solita frase <giocare in casa o in trasferta per noi è lo stesso> è verità. Dire che l'assenza di pubblico falserà il finale della stagione (dei campionati, perché si ricomincerà anche in B e in Lega Pro) è forse un'esagerazione. Il concetto, forzato, non è sbagliato.
Bentornato, però, calcio. Per il semplice fatto di essere di nuovo fra noi.