Cosa succederebbe se il futuro si trasformasse da risorsa in minaccia? Quali effetti si produrrebbero sulla società “post post-moderna”, come la chiamava Bauman, se si consolidassero le distorsioni connesse ad un’errata percezione del tempo da parte dei principali attori pubblici? A voler applicare tale ragionamento alla politica, ovvero a quel sistema che si assume la responsabilità di decidere ciò che è più giusto ed efficace per la collettività, le risposte a queste domande non possono essere ricercate prescindendo da una (pur rapida) disamina delle maggiori criticità dell’ultimo decennio.
Ne segnalo tre, non senza aver messo in evidenza che c’è chi già negli anni Settanta – si pensi ad Alvin Toffler - aveva parlato di “choc del futuro”. Il riferimento è alle difficoltà dell’individuo quando si ritrova a confrontarsi con un’enorme quantità di cambiamenti in un lasso di tempo assai contratto e circoscritto. Cambiamenti repentini, eccessivi, radicali. E non sempre pienamente comprensibili. La centralità della prospettiva del “mutamento” è uno dei motivi per cui vale la pena che la sociologia recuperi ruolo e funzione, a patto che ci si intenda sul significato di questa parola.
Diverse le opzioni: cambiamento nella continuità; cambiamento come superamento della situazione pregressa; cambiamento come congelamento. Non è questione di ottimismo o pessimismo, quanto di individuazione delle ragioni che determinano questa prospettiva. Si tratta di riflettere, cioè, sul modo in cui sistemi e sottosistemi sociali reagiscono di fronte all’incedere prepotente di processi destabilizzanti e trasformativi. La pandemia è uno di essi, così come in passato lo sono state gli attacchi alle Torri Gemelle a New York e la crisi finanziaria ed economica del 2008.
Si diceva della politica e delle sue tre criticità, a maggior ragione nel contesto multiforme della lockdown society. La prima è legata al disallineamento generatosi tra la domanda e l’offerta di policy. La richiesta che i cittadini fanno ai governi in ordine alla soluzione di problemi specifici spesso non trova risposte adeguate.
I motivi sono tanti e attraversano in lungo e in largo molte democrazie liberali: mancanza di competenza delle classi dirigenti e difficoltà ad affrontare in modo performante la complessità del nostro tempo; assenza di equilibrio tra componente tecnica e componente politica; fragilità della dinamica della rappresentanza; primato delle logiche della comunicazione. Chi scrive ha messo in evidenza più volte quanti e quali siano i rischi del divorzio della politica dal potere decisionale. La seconda criticità è legata alla scarsa flessibilità del sistema, nonostante l’alta fluidità del quadro elettorale.
Una flessibilità che si costruisce respingendo sia disegni di cieca accettazione del cambiamento sulla scia dell’entusiasmo manifestato nei confronti del nuovo per il solo fatto che esso è tale, sia disegni di decisa resistenza rispetto alle possibili modifiche allo status quo. Il risultato? I “futuri presunti” – perché di questo si tratta- non vengono interpretati con la dovuta duttilità, ma con una sorta di sudditanza alle formule già esistenti e con una subordinazione quasi incondizionata allo schema rappresentativo e percettivo preordinato alla deliberazione vera e propria. Un segno evidente della situazione che qui si sta analizzando è costituito dalla mancanza di programmazione e dalla difficoltà a far incrociare la variabile dell’importanza con quella dell’urgenza.
La terza ed ultima criticità riguarda la rinuncia della politica a proporsi come mappa concettuale e criterio di orientamento individuale e collettivo. Le conseguenze di tutto ciò sono almeno due: l’oscillazione continua nei sondaggi a favore dell’uno o dell’altro soggetto politico anche a causa di una riduzione delle differenze identitarie tra i partiti; la divisione in blocchi non sempre rispondenti alla realtà. Si pensi, per fare qualche esempio, alla dicotomia europeisti/antieuropeisti o a quella globalisti/sovranisti.
Ne consegue il rafforzamento di un atteggiamento cinico e sospettoso verso i leader, unitamente ad una perdita di fiducia nei confronti di chi esercita il potere. Un fenomeno quest’ultimo che Peter Mair definisce con il termine “depoliticizzazione”, che è quasi il rovescio della medaglia della “iper-politicizzazione”.
È bene ricordare che nelle proprie scelte gli elettori usano alternativamente dinamiche cognitive di tipo analogico-associativo e ragionamenti fondati su logiche verificazioniste più che falsificazioniste: basta una sola evidenza coerente con una visione ex ante per suffragare una tesi politica piuttosto che una sola evidenza contraria per negare validità ad essa. Tre criticità, dunque, riassumibili con un’unica formula: crisi di futuro e dittatura del presente. Del resto, un‘azione che potrebbe compiersi (ma che ancora non si è compiuta) già solo per questo motivo è problematica.
A maggior ragione se l’unico modo per approcciare al futuro coincide con la tendenza a rifugiarsi nella “comforte zone” della routine quotidiana. Sono molti i sintomi di questa patologia: schiacciamento antropologico sulla dimensione consuetudinaria e presentista; incapacità di recuperare l’essenziale (indispensabile nell’era Covid-19); difficoltà a determinare una nuova “intelligenza politica” che eviti la condanna dell’elettorato attivo alla riduzione drastica, per rassegnazione, delle aspettative.
La politica deve recuperare il suo orizzonte di senso. Deve agganciarsi al valore della reciprocità, alla simmetria della “uguaglianza dell’interazione” più che della “uguaglianza di posizione”. Un discorso che vale tra le classi sociali, tra le generazioni, tra il Nord e il Sud, tra le culture e i modelli sociali. Vale a patto che ci sia un’idea di Paese alla quale ispirarsi. A patto che sia chiaro a tutti il rapporto dell’Italia con l’Europa e quello dell’Europa con l’Italia. A patto che la gradualità, pur quando ispirata al pragmatismo, non si trasformi nella fonte di un preoccupante immobilismo politico.