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La giusta distanza tra noi e gli altri

La giusta distanza tra noi e gli altri

 
Sergio Lorusso

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Sergio Lorusso

La giusta distanza tra noi e gli altri

La vicenda di Aisha ha fatto emergere la nostra indole di odiatori, per usare lo sgradevole neologismo coniato nella nostra lingua, sempre pronti a sprizzare veleno per affermare sé stessi

Mercoledì 13 Maggio 2020, 18:34

Ma qual è la giusta distanza? In questi mesi di isolamento forzato ci siamo trovati di colpo a fare i conti, per la nostra sicurezza, con distanze fisiche e distanziamenti sociali. Almeno un metro, secondo le prescrizioni dettate per arginare la diffusione di Covid-19. Anzi, no. Meglio due.

E poi la distanza dai propri cari, dagli amici, dai colleghi di lavoro, ciascuno confinato nella propria area di sopravvivenza, solo in parte colmata da social e videochiamate.

Prima del Coronavirus eravamo abituati a contrappore i centimetri zero del caliente Sud, fatti di baci, abbracci e pacche sulle spalle, con la distanza più rassicurante dell’algido Nord in cui la stretta di mano costituisce il massimo del coinvolgimento emotivo. O almeno così credevamo. Solo luoghi comuni, stereotipi, spazzati via dalla voglia e dai tentativi di violare l’embargo sociale che hanno visto gli italiani per una volta uniti, come le cronache dal fronte virale ci hanno raccontato.

La distanza fisica, certo, ma c’è un’altra distanza sulla quale occorrerebbe riflettere.

Quella tra noi e gli altri, la distanza tra noi e il mondo.

È difficile pensare – come pure in tanti hanno creduto – che questa esperienza eccezionale possa aver cambiato tutti noi, il nostro modo di vedere le cose, la nostra maniera di rapportarci agli altri. Saremmo tutti più solidali, più altruisti, meno egocentrici e meno rabbiosi. E invece no. È bastata la scintilla Aisha (il nuovo nome di Silvia Romano) a far tornare tutti con i piedi per terra, a far riacquistare ai social il ruolo per cui sono più noti, quello di fabbricanti di haters. Di odiatori, per usare lo sgradevole neologismo coniato nella nostra lingua, sempre pronti a sprizzare veleno per affermare sé stessi.

Perché tre mesi di epidemia non possono stravolgere e riscrivere le personalità, non possono cambiare abitudini e comportamenti se non in maniera transitoria. Ce lo suggeriscono il buon senso e la conoscenza (pur se sommaria) della storia.

Siamo una civiltà fondata sull’individualismo – più che sull’individuo – e una visione collettiva, che mette al primo posto il bene comune, riesce a fatica ad emergere e solo per brevi periodi, in presenza di particolari contingenze. È tutt’al più un auspicio. Come spiegare, se no, le trasgressioni dei divieti imposti nella fase 1 (certo in percentuali non significative, ma neanche da trascurare) e l’interpretazione della fase 2 come un “liberi tutti”, accompagnato in determinate aree geografiche dal grido “da noi il Covid-19 non c’è”?

Si è già detto di come il successo nel debellare il Coronavirus in nazioni come la Cina o la Corea del Sud è stato dovuto in gran parte al forte senso della comunità che contraddistingue i loro abitanti. Anche da noi si sta centrando l’obiettivo, ma accompagnati da mille polemiche. E da mille incoronazioni dei presunti eroi seguite da altrettante destituzioni. Perché, in fondo, ciò di cui (si sentiva e) si sente più il bisogno è di un nemico a buon mercato, cui addossare le colpe del virus, della sua propagazione, delle cure sbagliate, delle vittime che si potevano evitare, delle mascherine divenute più introvabili dell’Araba fenice, dei tempi e dei modi sbagliati dei divieti imposti, degli utili e dei posti di lavoro persi, persino del campionato di calcio in stand by.

Eppure, il distanziamento sociale ci ha fatto ridesiderare l’avvicinamento sociale.

La giusta distanza, nell’omonimo film di Carlo Mazzacurati (2007), è quella che intercorre tra l’indifferenza e il perdersi nelle emozioni, suggerita a un aspirante giornalista dal direttore del giornale per cui lavora. Una visione un po’ pilatesca, per certi versi, che se intesa come disimpegno potrebbe ingannarci impedendoci di andare oltre le apparenze, più in là dell’ovvio, ma che può avere una valenza positiva se tradotta in un atteggiamento che eviti, da un lato, un approccio asettico e disinteressato alle cose della vita, dall’altro un comportamento da stadio (sempre più un imprinting degli italiani). Vivere nel mondo con passione ed entusiasmo non significa prevaricare gli altri, non rispettarli, non apprezzarne le diversità, pur non condividendole, non confrontarsi anche aspramente ma rispettando le regole del gioco. Questa, forse, è la giusta distanza.

Ecco, se in qualcosa sarebbe augurabile che tutti risultassimo mutati alla fine di questo viaggio nell’imprevedibilità del mondo, pur rimanendo noi stessi, è proprio nel modo di considerare gli altri. Smettendola di trovare a tutti i costi capri espiatori, di accusare sempre qualcuno – naturalmente diverso da noi – per ciò che non va (anche la pandemia, nei suoi effetti pure drammatici per la salute e per le tasche di molti italiani, sembra che necessiti di un responsabile), di praticare con costanza lo sport del “di chi è la colpa?’”. Certo non riusciremo a diventare ciò che non siamo – servirebbero secoli e vissuti sociali agli antipodi dei nostri, che hanno tracciato una linea invalicabile tra Occidente ed Oriente – ma almeno potremmo divenire migliori.

Occorre uno sforzo, naturalmente. Non sempre le cose accadono da sole.

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