Dad. È l’acronimo – elaborato a tempo di record – che designa la didattica a distanza, imposta dall’emergenza Covid-19 alle scuole spesso colte impreparate da una virata digitale dell’insegnamento che ha avuto l’indubbio vantaggio di evitare uno stop ad oltranza per milioni di studenti. Ma anche di metterli di fronte ad una nuova e poco piacevole discriminazione.
Si chiama digital divide, ovvero differenziazione tra le persone in ragione della qualità o del possesso di strumenti informatici. Pc, tablet, smartphone non sono uguali per tutti. Alcuni ne possiedono tanti, altri uno soltanto, altri ancora nessuno. Ciascuno, poi, si caratterizza per le sue prestazioni. E se diventano, causa lockdown, primari – anzi indispensabili – per imparare, generano differenze sociali che non possono essere ignorate. Al pari della diversità generata dalla velocità di connessione di cui ciascuno dispone.
Quasi un terzo degli studenti del nostro Paese non ha potuto godere appieno in questi giorni della didattica a distanza per la carenza o l’inadeguatezza degli strumenti tecnici necessari, a partire dalla mancanza di un numero sufficiente di dispositivi per studiare e consentire al contempo ai genitori lo smart working.
Com’è intuibile, soprattutto al Sud. È un dato passato sotto silenzio, se non ignorato, pressoché da tutti. A partire dai sacerdoti e dalle vestali dell’innovazione tecnologica al servizio della didattica, divenuti d’emblée i vati della conoscenza del terzo millennio.
La tecnologia è utile e bella, ma una sua utilizzazione massiva deve fare i conti con la disponibilità dei dispositivi necessari per adoperarla, altrimenti diventa un fattore di discriminazione. Specie quando destinata a soddisfare un diritto fondamentale – il diritto all’istruzione – garantito dall’art. 34 Cost. Una norma che prevede l’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto anni (e il diritto dei più capaci e meritevoli di raggiungere le vette più alti degli studi anche quando privi di mezzi economici per farlo).
Oggi, invece, seppur in via straordinaria e (forse) temporanea, questo diritto viene di fatto messo in discussione, con un tuffo all’indietro di oltre un secolo, negando a chi proviene da famiglie economicamente svantaggiate gli strumenti di apprendimento affiancati ai tradizionali libri: pc e tablet. Eppure, già molto tempo prima della Costituzione, nel 1911, il governo Giolitti istituì un organo al fine di distribuire ai bambini bisognosi vestiti, scarpe e libri affinché potessero adempiere all’obbligo scolastico. Paradossale che la bomba tecnologica possa fare scorrere le lancette della storia a ritroso.
La povertà, insomma, potrebbe tornare a generare ignoranza.
Fa tenerezza la storia di Giulio, un bambino di Scansano, che avendo problemi a collegarsi in rete, ha deciso – dopo aver perso per alcune settimane le lezioni a distanza – di spostarsi a circa un chilometro dalla propria abitazione, nei campi, portando con sé il banco, la sedia e il preziosissimo tablet. Delle lezioni bucoliche, una maniera inusuale di conoscere Virgilio, pioggia permettendo.
I lucchetti digitali imposti dal virus malefico alla scuola rischiano insomma di diventare un fattore di diseguaglianza sociale. L’esatto opposto dei lucchetti dell’amore, quelli resi celebri da Federico Moccia (Ho voglia di te, 2007) e che sigillano un amore eterno, come dovrebbe essere quello tra lo studente e la conoscenza. E la disparità c’è anche tra chi dispone di un pc o di un tablet e chi deve invece ricorrere ad uno smartphone. È la stessa cosa seguire una lezione, magari con tanto di materiali multimediali, su uno schermo lillipuziano o su di ampio monitor?
«La scuola è un aula e non un video», ha affermato l’Accademia della Crusca nei giorni scorsi.
Il ministro dell’Istruzione più “rosso” della storia repubblicana – almeno a giudicare dal colore del suo rossetto preferito – sabato scorso, nel precisare di non aver mai parlato di doppi turni (del resto, chi avrebbe dovuto insegnare nel turno B?), ha preannunciato per il prossimo anno una soluzione fifty-fifty, ripartendo equamente giorni di didattica in aula e giorni di didattica a distanza. Ieri, sempre da fonti ministeriali, è invece emersa l’ipotesi di una “didattica in presenza parallela”, nella quale gli alunni che superino i limiti di sicurezza imposti dal Covid-19 verrebbero collocati in altri locali costituendo un nuovo “gruppo-classe”. Resta da capire dove questi altri locali debbano essere reperiti. Certo non nelle scuole, da tempo affamate di nuove aule. Le “classi pollaio”, che non più tardi dello scorso febbraio il ministro Lucia Azzolina aveva dichiarato essere una priorità della sua azione di governo, sono un problema e non un’occasione per distribuire gli studenti consentendo loro l’ingresso a giorni alterni. Grande è la confusione sotto il cielo della scuola italiana, insomma, quindi la situazione è eccellente, per parafrasare il più “rosso” di tutti il leader “rossi” della storia, Mao Zedong. Certo, si possono ipotizzare forme di integrazione della didattica a distanza, ma queste non devono costituire un alibi per continuare a ignorare croniche mancanze di risorse e di strutture.
«Il peggio, nel peggio, è l’attesa del peggio», ha detto Daniel Pennac. Attendiamo fiduciosi che ministri e sottosegretari competenti lo smentiscano.