Sospesi tra istinto e ragione. Tra paura e speranza. Tra desiderio e consapevolezza. Tra presente e futuro. A dispetto di quello che convenzionalmente si pensa, persino quel portavoce della cultura illuministica che fu Denis Diderot sostenne che l’intelletto umano ha i suoi pregiudizi, che il senso ha le sue incertezze, che la memoria ha i suoi limiti, che l’immaginazione ha le sue oscurità e che gli strumenti hanno la loro imperfezione.
Egli aggiungeva che i fenomeni sono infiniti, le cause sono nascoste e le forme transitorie, evidenziando altresì che contro i tanti ostacoli che troviamo in noi disponiamo solamente di un’esperienza lenta e di una riflessione limitata. In queste giornate così difficili mi sono tornate in mente quelle parole. La filosofia serve a questo. Serve a rendere la riflessione meno limitata e l’esperienza più fruttuosa. Ora più che mai c’è un gran bisogno di filosofia. Di filosofia e di sociologia. Oltre che di fede, almeno per chi crede. La “fiducia” nella ragione (che ha la stessa radice etimologica della parola “fede”) registra una battuta d’arresto di fronte ad un virus che sta mettendo in ginocchio tutto ciò che la ragione medesima ha creato dalla rivoluzione industriale in avanti.
Forse era prevedibile che ciò accadesse. Forse era ed è persino inevitabile. Da un lato abbiamo molte aspettative rispetto alla soluzione che può fornirci la scienza. Dall’altro protestiamo per il ritardo dell’individuazione di un vaccino in grado di farci affrontare questa emergenza con quel senso di superiorità che nel recente passato ha indotto l’uomo a comportarsi con la natura da prepotente ed arrogante.
La pandemia da coronavirus produce effetti multipli: sanitari, economici e sociali. Trasforma e forma nuovi modelli comportamentali che rilevano in ogni ambito della società. La fase 1, quella cioè dell’emergenza per frenare la diffusione del contagio, ha evidenziato molte questioni compresa quella del rapporto democrazia-libertà individuali. Tema affrontato, anche guardando alle esperienze di altri Paesi, con la logica del Panocticon ovvero delle “istituzioni totali” per dirla con Jeremy Bentham e con Michel Foucault. Istituzioni totali, a livello nazionale e territoriali. Il che non significa che le Regioni abbiano agito in modo omogeneo rispetto al governo.
Tutt’altro, visto che anche quelle di centrosinistra, politicamente affini al governo, hanno assunto atteggiamenti peculiari, frutto cioè di capacità decisionali specifiche riconosciute dalla nostra Costituzione. Quella che stiamo vivendo (non siamo ancora usciti da questo stadio perché l’indice di contagio Ro non è ancora sotto l’1) è la fase dell’eteronomia che Immanuel Kant immaginava come esito dell’adesione incondizionata alla legge morale, ovvero ai precetti impartiti da altri e seguiti da tutti (o quasi tutti) in quanto tali, più che per intima e consolidata convinzione individuale. La fase 2, quella cioè della convivenza con il virus, a maggior ragione invoca il ricorso all’autonomia.
Che è l’opposto dell’eteronomia perché è “nomos” personale. Per essere più fisici o comunque meno metafisici, tutto questo significa individuare con più precisione ed in modo più agevole i positivi, poter usufruire di test seriologici e di strategie di contact training per monitorare i contatti stretti di chi è stato contagiato. Significa mantenere almeno un metro di distanza dagli altri per moltissimi mesi ancora, indossare la mascherina e i guanti nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, abituarci a vivere la socialità in modo differente. Significa poter far leva su una riapertura graduale dei negozi ed esercizi commerciali in base alle reali necessità della collettività. Significa puntare su lezioni online in scuole e università come scelta quasi primaria, effettuare consumi culturali domestici, praticare attività sportive con molte precauzioni. Il principio ispiratore sarà quello della gradualità e della proporzionalità. Principio che non può che far leva sul senso di responsabilità delle singole categorie produttive e delle singole persone. La logica delle “istituzioni totali” dovrà essere sostituita perciò da quella delle “istituzioni diffuse”, nel senso che ciascuno deve operare come se fosse un’istituzione, le cui decisioni evidentemente impattano sugli altri.
Viviamo nell’era della iper-complessità: si stabiliscono nessi di causalità tra sistemi e sottosistemi sociali. Basti pensare all’effetto di reciprocità creatosi tra sanità ed economia. Un rapporto che si sviluppa in senso bidirezionale. Quando la fase 2 comincerà (e se siamo fortunati inizierà dopo il 4 maggio, superato cioè il week end della festività dei lavoratori) ci misureremo con una nuova consapevolezza diffusa. E tutto questo vorrà dire che gli effetti economici e sociali staranno pesando più di quelli sanitari.
Sarebbe una follia, però, pensare che quel giorno volteremo pagina e tratteremo il virus come un nemico già sconfitto o che considereremo questo frangente come un periodo da archiviare tra i nostri brutti ricordi. Il virus è e sarà sempre pronto a riprendere la propria corsa, specie se i comportamenti di tutti noi non saranno ispirati dal buon senso. Ridurre la pressione sugli ospedali è la priorità in questo momento, ma l’espressione “convivenza con il virus” ha un sapore antropologico e politico (nel senso di programmazione) più che epidemiologico. Interpella le coscienze di ognuno di noi, senza più la minaccia della paura. Distribuisce azioni e reazioni lungo un asse temporale di lungo termine.
Non spegniamo il lume della ragione. Pardon, non spegniamo il “lumicino” della ragione. Così amava definirlo Diderot.