Sabato 06 Settembre 2025 | 12:41

Niente acciaio e infrastrutture: il nonsipuotismo blocca il Sud

 
Giuseppe De Tomaso

Reporter:

Giuseppe De Tomaso

rione tamburi taranto

E pensare che, a partire dall’Unità d’Italia (1861) tutte le maggioranze di governo, nessuna esclusa, ha scolpito nel proprio programma la (ulteriore) modernizzazione dello Stivale

Domenica 17 Novembre 2019, 15:25

Sarà che la vera rivoluzione, in un Paese come l’Italia, coinciderebbe con una buona amministrazione e una soddisfacente manutenzione, resta il fatto che nessuna nazione può fare a meno di porsi traguardi prestigiosi sia sul fronte delle grandi opere sia in materia di obiettivi industriali. Invece, mai come adesso, il sistema Italia arranca nelle retrovie, ora per carenza di stimoli, ora per paura di conseguenze giudiziarie, ora per retropensieri decrescistici, ora per logomachie politiche, ora per ingorghi burocratici, ora per pregiudizi anti-imprenditoriali. Il Mose di Venezia, vale a dire il sistema di protezione dall’acqua alta, avrebbe dovuto e potuto rappresentare un esempio di Grande Opera in una Penisola a corto di progettazioni a lungo termine, invece si è perso come Ulisse dopo la guerra di Troia, sballottato di qui e di là, col rischio, sempre per il Mose, di nascere - quando sarà - più arrugginito di un ferro vecchio e più obsoleto di un treno a vapore.
E pensare che, a partire dall’Unità d’Italia (1861) tutte le maggioranze di governo, nessuna esclusa, ha scolpito nel proprio programma la (ulteriore) modernizzazione dello Stivale. Concetto che, oggi, viene pronunciato sottovoce, o tutt’al più solo sussurrato, per evitare chissà cosa, forse la taccia di produttivismo eccessivo, boh, vallo a sapere.

Ma di questo passo, l’Italia rischia davvero la desertificazione industriale accompagnata dall’argentinizzazione socio-economica. Persino la Grecia è più dinamica, dopo lo spavento degli anni scorsi e dopo lo choc di una terapia d’urto imposta dalla Cancelleria teutonica.
La vicenda dell’Ilva è, come si dice, emblematica. Nessuno sa cosa fare. Nessuno sa come gestire una bomba economica, sociale e ambientale, che rischia di provocare più danni e disastri di un paio di guerre militari perdute.

E pensare che il Fattore Industria ha scandito la storia effettiva del Belpaese, più di ogni altro Fattore. Lo Stato liberale unitario nasce proprio con il proposito di promuovere l’industrializzazione della Penisola. Il Nord fa la parte del leone grazie all’introduzione delle tariffe protezionistiche (1887) e al relativo conflitto commerciale con la Francia, la cui reazione segnò la fine della viticultura meridionale che già stava esportando, oltralpe, sui mercati di Marianna. Ovviamente il Nord se ne avvantaggiò assai, dal momento che il neoprotezionismo giovò proprio alla nascente industria settentrionale. Il Sud, secondo gli ottimisti del tempo, avrebbe dovuto seguire a ruota lo scatto produttivo del Nord. Il che non avvenne, per mille ragioni, di cui tuttora si discute.

L’economista russo-americano Alexander Gerschenkron (1904-1978), sulla scia della sua teoria sull’industrializzazione tardiva, sosteneva che il balzo in avanti del Nord più che dalla partigianeria dello Stato centrale, fosse stato provocato dal sistema creditizio, in particolare dalla banca mista (due sigle: Banca Commerciale e Credito Italiano) nata in Italia sul finire dell’Ottocento sotto l’egida e la regia di finanzieri tedeschi e austriaci. Senza quei capitali destinati alle iniziative industriali padane e senza quella mentalità mitteleuropea tesa a fare impresa, non presa sui politici compiaventi, anche il Nord sarebbe rimasto al palo, nonostante l’occhio di riguardo a suo favore assicurato dalla classe dirigente nazionale.
La siderurgia (settentrionale) fu la principale beneficiaria delle tariffe protezionistiche del 1887, più della chimica e di tutti gli altri settori.

Cosicché quando, più tardi, su proposta del governo (1959) capitanato da Antonio Segni (1891-1972) venne realizzata l’idea di costruire anche al Sud un polo siderurgico di dimensioni europee, nessuno ebbe qualcosa da eccepire. Lo stabilimento Italsider a Taranto era, tutto sommato, una doverosa opera risarcitoria nei confronti di un territorio ignorato da sempre, e come tale venne giudicato anche nell’Italia ricca. Certo, si poteva fare meglio o diversamente, agevolando la promozione e la crescita della piccola e media impresa privata locale, in modo da evitare gli effetti collaterali (in primis ambientali) tipici di un insediamento industriale pesante. Ma, in ogni caso, lo Stato centrale diede prova di forte vitalità, di notevole energia. Dimostrò di saper pensare in grande, di avere ambizioni, di puntare a ridurre il divario tra le due Italie, di voler accendere lo spirito d’intraprendenza generale del Paese, dalle Dolomiti fino a Lampedusa.

Oggi, quando va bene, lo Stato gioca in difesa, roba che manco le squadre del mitico Nereo Rocco (1912-1979), simbolo degli allenatori catenacciari, osavano fare vedere.
Ma un Paese che rinuncia ai suoi simboli, alle sue sfide, è un Paese che perde appeal. Né può costituire motivo di consolazione la constatazione che qualche calciatore (straniero) di grido scelga i nostri campi di gioco per disputare le sue ultime stagioni da protagonista.
Le grandi opere, le iniziative da prima pagina, spesso si segnalano per dare lavoro alle procure e alle forze dell’ordine. Ma ciò non deve indurre a cestinare tutti i progetti tesi ad ammodernare il Belpaese e soprattutto il Mezzogiorno, le cui attuali modeste infrastrutture costituirebbero il tallone di Achille in ogni consesso umano del pianeta.

Insistiamo. Un’efficace iniziativa sarebbe quella, lanciata dall’ex rettore (Umberto Ruggiero) del Politecnico di Bari e rilanciata dalla Gazzetta, di risanare il quartiere Tamburi a Taranto e di risarcire i suoi residenti attraverso un bonus casa da utilizzare in altre zone della città e della provincia jonica. Ma, come rilevava già l’economista campano Antonio Genovesi (1713-1769), il male endemico del Sud si chiama nonsipuotismo. Su ogni proposta o su ogni iniziativa, dall’Ilva all’energia, dalla lotta alla Xylella a una grande opera, si risponde sempre, immancabilmente: non si può. Un altolà, un male, che ora si va sempre più estendendo anche al resto della nazione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)