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Cosa ci insegna la vicenda della capitana tedesca

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Cosa ci insegna la vicenda della capitana tedesca

«Le iniziative delle Ong non assumano mai più il sapore della sfida e della provocazione politica se si vuole effettivamente favorire la protezione umanitaria dei profughi»

Lunedì 01 Luglio 2019, 15:36

Sono tre le argomentazioni da seguire volendo individuare gli insegnamenti che arrivano dal caso Sea Watch. Caso conclusosi con l’arresto della capitana Carola nel porto di Lampedusa per aver opposto resistenza ed esercitato violenza nei confronti di un’imbarcazione della Guardia di Finanza. La prima argomentazione riguarda il piano giuridico, la seconda quello politico, mentre la terza si snoda intorno a considerazioni di carattere umanitario e solidaristico. Vediamole singolarmente, pur sapendo che esse finiscono per intrecciarsi, stabilendo un rapporto di causa ed effetto l’una con l’altra.
Cominciamo con l’affrontare la vicenda dal punto di vista giuridico, ricordando che essa si è sviluppata attraverso le seguenti tappe.

Eccole: soccorso in zona Sar libica di 53 migranti a rischio naufragio; no della Ong alla richiesta della Guardia Costiera libica (contattata peraltro dalla stessa Sea Watch) di trasportare i migranti a Tripoli e decisione di puntare su Lampedusa; no del Ministro Salvini che ha, comunque, deciso insieme agli altri componenti del governo, di far sbarcare i migranti bisognosi di cure (tre minori, tre donne di cui due incinte, due malati e i rispettivi accompagnatori); provvedimento del Viminale in base al decreto sicurezza bis di “divieto d’ingresso, transito e sosta nelle acque italiane”; respingimento da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo del ricorso presentato dalla Ong; decisione della capitana di forzare il blocco entrando nelle acque italiane; collisione tra la Sea Watch e l’imbarcazione della Guardia di Finanza ormeggiata nel porto di Lampedusa; arresto della Rackete, che per il tramite dei propri legali si è scusata con i finanzieri ed ha provato a giustificarsi dicendo di aver sbagliato manovra e sottolineando che la violazione del blocco è stata una decisione inevitabile, avendo ella notato che a bordo vi erano stati atti di autolesionismo.

Una vicenda durata diciassette giorni: ordini disattesi e decisioni assunte in deroga alla legge italiana. La prima contraddizione che emerge da questo quadro è quella presente comparando le norme europee, che consentono alla Guardia Costiera libica d’intervenire in soccorso di un’imbarcazione in pericolo essendo zona Sar (Search and Rescue), e l’orientamento delle Nazioni Unite che considerano la Libia un Paese insicuro ed incompatibile con la tutela dei diritti umani. La decisione della Rackete di raggiungere Lampedusa anziché Malta (più lontana della Sicilia), la Tunisia o l’Olanda (l’Aja ha fatto sapere di non aver mai ricevuto richieste da parte di Carola) è stata presa interpretando in modo soggettivo alcune norme di diritto internazionale. Il tema rileva non solo per la violazione delle disposizioni del nostro ordinamento giuridico, ma anche per la confusione dovuta alla mancanza di accordi internazionali con quei Paesi che dovrebbero accogliere i migranti sbarcati sulle nostre coste.

Sentire reprimende all’Italia sul caso della capitana tedesca da parte della Germania che ha rimandato sul nostro territorio alcuni extracomunitari (dopo averli sedati) è sicuramente un paradosso. Le domande a questo punto sono due. La prima: è legittimo violare la norma di uno Stato operando nel territorio di quest’ultimo ed è possibile farlo in nome di una ragione umanitaria considerata come sovraordinata rispetto a quella ispiratrice del diritto positivo? La seconda: è possibile giustificare “atti di inammissibile violenza”, per dirla con le parole del procuratore di Agrigento, nei confronti di nostri uomini e donne in divisa? Come hanno ricordato il premier Conte e il ministro Di Maio, le leggi ci sono e vanno rispettate. Ci piacciano o no. La salvezza delle vite dei migranti della Sea Watch, stando a quanto riferisce il Viminale, non era in discussione poiché, sebbene dopo diversi giorni, la situazione si stava sbloccando anche per la disponibilità di cinque Paesi stranieri a farsi carico della loro accoglienza. E qui arriviamo alle argomentazioni di carattere politico. La linea dura nei confronti dei migranti è una scelta condivisa da tutto il governo, anche se con intonazioni differenti.

Salvini sta pensando di raddoppiare le multe previste nel decreto sicurezza bis e di ricorrere al sequestro immediato delle navi. La legittimazione politica ad operare in tale direzione deriva dal voto popolare. La stragrande maggioranza degli italiani approva il rigore del governo sul tema. Altra cosa è l’auspicio che un tema così delicato venga sottratto ai rischi di una contrapposizione frontale dentro e tra i Paesi europei con accenti eccessivi e strumentali. Da tutte le parti. Come spiegare diversamente la scelta di alcuni parlamentari dell’area di centrosinistra (tre dei quali del Pd) di salire a bordo pur sapendo che quella nave stava violando la legge italiana? Evitare lo sfruttamento di simboli e la propaganda a fini di lotta politica e considerare la complessità del fenomeno “immigrazione”: questo è quello che va fatto, recuperando una visione europea e non solo nazionale. L’Italia non può essere lasciata sola di fronte a questa “emergenza”.

Non possiamo essere europeisti a giorni alterni. I punti da affrontare e risolvere riguardano più piani d’intervento. Anzitutto c’è da mettere in campo un’azione nei Paesi di provenienza dei migranti per impedirne le partenze e dar loro il sostegno economico, sociale e culturale. Ci sono poi da risolvere le contraddizioni presenti nel diritto internazionale sulle zone di soccorso e sui porti nei quali condurre i naufraghi, come abbiamo visto. Occorre inoltre velocizzare le procedure con le quali dare avvio al riconoscimento dello status di profugo. Salvini ha dichiarato ieri che su 44mila domande di asilo politico i tecnici ne hanno respinte 34mila, cioè il 75%.

Altra urgenza: rendere operativi i meccanismi dei rimpatri e al tempo stesso operare in direzione dei corridoi umanitari per poter favorire, secondo quote accettabili e sostenibili, programmi di reale integrazione sociale dei migranti. Si arriva così all’ultima argomentazione quella umanitaria, la più importante. Le iniziative delle Ong non assumano mai più il sapore della sfida e della provocazione politica se si vuole effettivamente favorire la protezione umanitaria dei profughi. Non abbiamo bisogno di brutte copie di Antigone intente a sfidare le norme del tiranno quando contrarie alle leggi etiche. Piuttosto, si faccia in modo che i principi di solidarietà ed accoglienza si associno alle esigenze della sicurezza e della difesa dei confini nazionali. Se vogliamo aiutare veramente chi fugge dalla guerra e coltiva l’aspirazione a vivere una vita migliore, dobbiamo contrastare anzitutto il traffico illegale di clandestini e isolare i delinquenti. L’immigrazione è un fenomeno che va affrontato tutti insieme. Senza protagonismi e colpi di teatro.

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