Sabato 06 Settembre 2025 | 06:32

La festa della Repubblica e la pera a metà di Einaudi

 
Michele Mirabella

Reporter:

Michele Mirabella

Michele Mirabella

Michele Mirabella

Speriamo tenacemente di non veder sostituire le monarchie con «gli uomini soli al comando». Comincerebbe, per dirla con Flaiano, la Repubblica delle pere indivise

Domenica 02 Giugno 2019, 18:40

Anni fa scrissi una riflessione sulla tradizione degli auguri di Capodanno del Presidente della Repubblica agli Italiani. Penso utile riproporla, variata e aggiornata con la riflessione sull’oggi. Oggi 2 giugno, Festa della Repubblica. Ho preso atto che certo mio timore di allora (vedi il finale) è da riconfermare con sgomento.
Al tempo in cui i bambini andavano a scuola e, di sera, facevano i compiti invece di formare branchi di piccoli criminali per emulare le gesta dei «Gomorristi» televisivi, si studiava la storia su libri un po’ ingenui e con illustrazioni: disegni colorati, succedanei dei fumetti.

In questi libri leggevamo ammonimenti paternalistici e un po’ patetici, a rileggerli oggi, con l’ispido cinismo dei grandi, ma , comunque, istruttivi. Al tempo in cui i «giovinetti» (non si usa più, lo so. Lo faccio apposta a essere fuori moda) non progettavano di diventare capibanda o delinquenti e non picchiavano le maestre, ma, sognavano di rinascere cavalieri o protettori dei deboli e delle donne, i libri di storia ci incoraggiavano a delineare un‘idea del capo e del condottiero fiabesca e manierata: erano re, principi, duchi e, via narrando, blasoni, conti e Durlindane.
Tutto invitava la mente infantile a vedere nella monarchia lo stereotipo del potere supremo e indiscutibile e ad affidarle il giacimento dei saperi connessi con l’amministrazione di paesi e popoli. Più tardi, studiando, ci emancipammo dalla sudditanza emblematica e diventammo popolo sovrano in grado anche di ribellarsi al potere comunque simbolicamente designato. Ma prima di tutto, la letteratura, la pittura, la storia soprattutto, financo la geografia, timidamente raccontata dalle vecchie carte politiche della Paravia che ancora portavano denominazioni magniloquenti come Regno d’Italia e d’Albania, Impero Britannico, eccetera, appese nelle aule delle, ormai, repubblicane scuole, spingevano a favoleggiare intorno a troni e sovrani. Anche quando di sovrano era, finalmente, rimasto solo il popolo.
L’Italia, allora impegnata a redigere cronache recenti di sconfitte sanguinose e troppo occupata in più necessarie imprese edilizie, non si curava di rimuovere con sollecitudine i marchi, le tracce e i segni del vecchio istituto monarchico sabaudo che malinconicamente sopravvivevano sui tombini, sulle cassette delle lettere, sugli edifici. E sui baveri dei commendatori più cocciuti.

Era naturale che la fantasia degli adolescenti del dopoguerra, qualche volta, rimpiangesse, senza averli conosciuti o averne provato la durezza del dispotismo e la decrepitezza istituzionale, sovrani, principi e principesse, la loro spettacolarità, lo sfarzo delle corti, la marzialità suggestiva del cerimoniale.
Nel 1946 la Repubblica Italiana nacque senza sontuosi clamori, ma come risultato di una decisione popolare meditata tra i ruderi di una patria offesa e vilipesa dalla dittatura e dalla guerra. E cominciò la riflessione sulla carta fondamentale che avrebbe regolato vita e opere della Repubblica, quella bellissima legge fondamentale del nostro Stato democratico che è la Costituzione. E il 2 giugno fu scelta come data per ricordare e celebrare la Repubblica italiana.
Agli esordi, però, benché non escludesse feste, cortei, parate, fanfare e sacrosante uniformi, a noi bimbetti, l’istituto della Presidenza della Repubblica sembrava triste e opaco, suggeriva grigiori burocratici, rinviava a mansioni pazienti e impiegatizie. Poco attraente il tutto per un bambino di allora.
Per giunta il primo, vero Presidente della Repubblica italiana, dopo l’onesto e monarchico De Nicola, fu Luigi Einaudi: lo ricordo in visita a Bari per inaugurare la Fiera del Levante, e noi, piccoli alunni delle Elementari, fummo arruolati ad applaudirlo lungo la strada. Vidi un uomo piccolo, vestito di scuro che barcollava appoggiandosi a un bastone. Ci dissero che era un galantuomo.
Più tardi, ai tempi dei libri senza figure, ai tempi dell’Università, ci dissero che, non solo era un galantuomo, ma era una grande mente economica e politica nota in molti paesi stranieri e che la sua rettitudine era proverbiale. Mi raccontarono che, durante un pranzo ufficiale offerto a un’altezzosa delegazione straniera al Quirinale, arrivato alla frutta, sbucciò una pera, la tagliò in due e, ignorando la rigida etichetta, chiese «Qualcuno ne vuole metà?». Il responsabile del cerimoniale invocò i sali per evitare lo svenimento.

L’entusiasmo che maturai da grande per quel galantuomo aiutò me e la mia generazione a confidare sommamente nelle istituzioni repubblicane, benché messe a dura prova da qualcuno dei suoi successori, ma il convincimento ha tenuto e rifiorì ai tempi dell’indimenticabile Presidente Ciampi. E mi torna in mente osservando la riservatezza di modi, l’impeccabile correttezza istituzionale, la cultura e l’intelligente stile politico del Presidente Mattarella.
Domani mattina (oggi per chi legge) passerà in rassegna le nostre Forze Armate e le altre forze dello Stato.
È un bell’appuntamento, con le istituzioni e con il popolo, del loro più alto rappresentante. Quando sfileranno queste donne e questi uomini siete liberi di commuovervi perché, con loro stanno passando anche gli Italiani del passato, sta marciando la Repubblica. Personalmente piango di entusiasmo quando corrono i bersaglieri.
È una tradizione il cui valore dobbiamo spiegare ai ragazzi, soprattutto a quelli che scopiazzano violentemente i nuovi divi di un discutibile spettacolo globale. Forse queste squallide, ma anche criminali, «gomorre» esaurirebbero la loro carica di narrazione idiota. Le vecchie favole contemplavano sempre re e principi un po’ sgualciti, ma furono archiviate soavemente dal genio di Collodi che, nell’incipit di «Pinocchio», invece del solito «C’era una volta un re» azzardò: «C’era una volta un pezzo di legno». E scrisse il capolavoro: un tocco di legno che diventa un bambino onesto.
E noi speriamo tenacemente di non veder sostituire le monarchie con «gli uomini soli al comando». Comincerebbe, per dirla con Flaiano, la Repubblica delle pere indivise.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)