Soltanto cinque anni fa c’era chi dubitava della sopravvivenza politica della formazione creata da Umberto Bossi. Oggi Matteo Salvini, l’erede che ha nazionalizzato il movimento padano eliminando dal simbolo il riferimento al Nord, è il padrone dell’Italia. Fino all’altro ieri il Capitano leghista condivideva, o meglio divideva, il comando effettivo con l’altro diarca del governo, il pentastellato Luigi Di Maio. Ora Salvini è il dominus incontrastato. Può decidere di continuare a governare con l’attuale socio di governo. Può cambiare compagni di strada imbarcando il resto del centrodestra. Può spingere verso il voto anticipato. Può optare per il prosieguo della legislatura attraverso nuovi percorsi. Insomma, può fare quello che vuole sul piano dell’iniziativa politica.
Il tracollo post-grillino ha vieppiù accresciuto le dimensioni del trionfo di Salvini che se, nelle settimane scorse, avesse chiesto da sùbito al sottosegretario Armando Siri di uscire dall’esecutivo, avrebbe potuto giocarsi la mossa nell’arena elettorale, per attestarsi attorno al 40% dei voti, come vaticinavano alcuni accreditati oracoli demoscopici.
Comunque. Il boom salviniano è sotto gli occhi di tutti, così come lo sboom dimaiesco. Paradossalmente le sorti del governo dipendono ora soprattutto dal ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro. Che dovrà, verosimilmente, affrontare un processo interno e, innanzitutto, il pressing di quanti, nel Movimento, invocheranno uno scambio di alleanze: stop a Salvini, avanti con Nicola Zingaretti. Operazione facile a dirsi, ma complicatissima a realizzarsi visto che non tutto il M5S si ritroverebbe d’accordo e che lo stesso Pd, prima di procedere, vorrebbe il via libera da un passaggio elettorale («allargare il centrosinistra»). Inoltre, l’eventuale cambio di partner da parte dei pentastellati presupporrebbe il benservito al loro attuale capo politico (ossia a Di Maio) e la successiva investitura per Alessandro Di Battista o Roberto Fico, i più tiepidi nei confronti del contratto con la Lega. Insomma.
Salvini non ha maramaldeggiato dopo la stravittoria in cabina elettorale. Il governo va avanti, ha chiarito sùbito. Ma ha posto due o tre condizioni indifferibili (Tav, autonomia differenziata e Flat Tax) che al grosso dei post-grillini forse hanno fatto salire la febbre a 39-40. E siccome difficilmente il Movimento consentirebbe a Di Maio di stendere, su questi tre temi, il tappeto rosso al suo collega vicepremier, è da presumente che quest’ultimo, cioè Salvini, forse ne approfitterà per staccare - in caso di dinieghi - la spina al governo Conte.
Nel frattempo è assai probabile che Salvini predisponga il proprio Piano B, che consiste, dal suo punto di vista, nella definitiva deberlusconizzazione del centrodestra e della medesima Forza Italia. Se finora Salvini ha voltato le spalle a tutti coloro che lo pregavano di ricostruire la coalizione moderata assurgendo a leader, a mattatore senza rivali, è perché lui non si è mai fidato delle garanzie di inoffensività o di non-belligeranza ribadite da di Berlusconi. Nella testa di Salvini da uno spirito mai domo come Berlusconi non ci si può aspettare una domanda di pensionamento, essendo il Cavaliere troppo innamorato di sè per immaginarsi, in futuro, solo nelle vesti di tifoso del Milan o di turista stanziale a Porto Rotondo.
Adesso, però, lo schema potrebbe cambiare. Se Forza Italia affrontasse il tema del dopo Berlusconi, se il Fondatore favorisse in prima persona la successione al trono, se un congresso sancisse il nuovo inizio del partito, beh in questo caso l’autoveto di Salvini a guardare verso i suoi tradizionali alleati per il governo nazionale, potrebbe saltare in un minuto.
Il M5S, che regge alle europee in Puglia e a Bari, deve il suo flop a una coppia di motivi: la capacità di Salvini di monopolizzare la Rete e la Tv e l’insoddisfazione causata dal reddito di cittadinanza. Salvini ha infilzato il Movimento proprio sul terreno conunicativo a quest’ultimo più congeniale: il Web, i Social. Il reddito di cittadinanza si è rivelato più croce che delizia per Di Maio. Il sussidio ha deluso quanti, tra gli aventi diritto, speravano di ricavarne di più e ha irritato quanti, fra i non aventi diritto, hanno associato la misura a un regalo per fannulloni e divanisti pagato dai contribuenti.
Il Pd sembra aver archiviato definitivamente la stagione renziana (nel 2013 balzata al 40,8% dei voti). La normalità di Zingaretti - dopo i fuochi d’artificio dell’ex Rottamatore - sta rendendo, come dimostra il ritorno a casa di numerosi fuggitivi, incompatibili con il (recente) corso renziano.
Fratelli d’Italia attende di conoscere le mosse di Salvini, che potrebbe affrettarne l’approdo nell’area di governo a prescindere dalla piega che prenderà il rapporto della Lega con Forza Italia. Segnali di fumo si sono già notati nelle settimane scorse. Di sicuro Giorgia Meloni si ritiene più vicina a Salvini che a Berlusconi.
Ma il bello, diciamo, deve ancora arrivare. Riguarda il ruolo prossimo venturo dell’Italia in Europa, dove il fronte sovranista, nonostante i suoi successi in nazioni di grido, rimane in netta minoranza. In ogni caso, a Bruxelles e Strasburgo non si assisterà a un confronto tranquillo tra europeisti e nazionalisti.
Ma il bello deve arrivare pure in Italia, i cui conti pubblici sono quelli che sono e l’Europa preannuncia supermulte. Chi sottoscriverà la manovra economica? Quali provvedimenti saranno varati? Dove si troveranno le risorse necessarie? Come verranno distribuite tra Nord e Sud? Come finirà il capitolo sull’autonomia regionale cara alla Lega?
Non sarà facile trovare la quadra su questi temi, visto che specie su due punti qualificanti, come Tav e federalismo differenziato, Salvini e Di Maio la pensano in modo opposto, come succede fra Massimiliano Allegri e Maurizio Sarri, due strateghi di calcio dalle visioni non sovrapponibili.