Hanno ragione sia la Chiesa che lo Stato, la comunità dei vescovi italiani e il presidente Napolitano. L’Italia è davvero una realtà multietnica. Me ne sono accorto quando nella stazione del mio paese, prima del rituale viaggio verso Bari, ho trovato attorno a me persone di tutte le nazionalità. Maghrebini, rom, cinesi, perfino tedeschi: sembrava di stare in una sezione staccata dell’Onu piuttosto che in una remota stazione del Sud. Ma soprattutto mi sono visto circondato da individui che parlavano una lingua arcaica, ancora più incomprensibile. Appartenevano ad un’altra etnia, ad un’altra tribù linguistica. Non erano neri, pellirossa, scandinavi o maori. Ma semplici compaesani che si esprimevano in dialetto, rifiutando ogni ricorso casuale alla lingua italiana.
Allora mi si è palesata tutta la multiculturalità della nostra nazione, a prescindere dagli immigrati e dagli stranieri. E cioè la compresenza di molteplici dialetti e culture, che resistono e sopravvivono a livello locale, sfidando la globalizzazione e la tendenza verso l’uniformità linguistica. Nella nostra nazione si mantengono nicchie di linguaggio, sacche di parole fiere della loro autonomia. E’ la lingua del paese di provincia che convive con la lingua del Paese Italia. Altro che l’inglese come idioma universale: in queste comunità ristrette non si parla neppure l’italiano.
Per questo, forse, i veri clandestini siamo noi. Clandestino non è l’infiltrato o l’immigrato irregolare. Ma letteralmente colui che ha il destino di appartenere ad un clan, ad una tribù locale, ad una storia, ad un paesaggio e ad una memoria. E soprattutto ad una lingua, che funge da codice segreto per comunicare in loco, e per non farsi comprendere all’esterno. Una sorta di linguaggio morse per i compaesani.
Così quando siete all’estero, e volete fare strategie per rimorchiare ragazze straniere, non esprimetevi in italiano e tanto meno in inglese, ma in dialetto locale. Vi renderete incomprensibili e misteriosi, e potrete usare la lingua per altre e più nobili funzioni. Magari portatevi anche un manuale linguistico, come l’appena edito Vocabolario Dialettale Biscegliese. Un lavoro straordinario, frutto della dedizione del dialettologo Raffaele Pastore (vissuto nell’Ottocento) e della passione di copista del "nostro" (perché biscegliese, e perché giornalista della Gazzetta) Luca de Ceglia. Una summa dell’idioma locale, un bignami della lingua nostrana, uno zingarelli che ci riporta a casa anche quando facciamo gli zingari in giro per il mondo. E soprattutto un modo per rendere il dialetto accessibile e leggibile a tutti.
Con il tempo, l’uso del vernacolo ha infatti subito due processi inversi, ma complementari. O il dialetto è diventato una forma di diletto, uno svago per eruditi, un vezzo filologico da coltivare tra le quattro mura domestiche, come se fosse una lingua morta.
Oppure è diventato proprietà delle fasce culturalmente più povere e ignoranti della popolazione. Marchio linguistico degli umili e degli incolti, status symbol di una degenerazione sociale. Lingua volgare, nel senso peggiore del termine.
Il dizionario dialettale, così come tante opere analoghe, è piuttosto un modo di recuperare il dialetto come lingua viva, che si può utilizzare nella conversazione quotidiana, ma anche negli scritti, nelle poesie, negli articoli di un giornale, nella propaganda politica. Non a caso, durante la campagna elettorale per le provinciali, nella Bat sono comparsi parecchi manifesti che si esprimono in dialetto.
Acchessì so decise de scrive la fine de cusse articue in dialiette. Vì petite dìce, e peccè daje? Ma schesate, onne fatte la gazziette in Albanie, e nan se pote fo n' edizion a puoste pe Vescègghie? So già decise ù neme: so penzate de chiamà cusse scernaele La Gazziette du Mezzadì.
















