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Macché bavaglio, parola d'autore

 
Massimiliano Scagliarini

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Massimiliano Scagliarini

Macché bavaglio, parola d'autore

«Non c'è alcun bavaglio. Nessuno vuole proibire la pubblicazione di foto o «meme» sui social network. Per i cittadini da oggi in avanti non cambia assolutamente nulla, o comunque molto poco». Ecco perché i giornalisti sono favorevoli

Giovedì 13 Settembre 2018, 16:23

Non c'è alcun bavaglio. Nessuno vuole proibire la pubblicazione di foto o «meme» sui social network. Per i cittadini da oggi in avanti non cambia assolutamente nulla, o comunque molto poco. Ma per capire perché noi giornalisti siamo a favore della direttiva «Copyright» approvata ieri a Strasburgo, vale la pena di fare un esempio concreto.
Stamattina molti degli articoli di questo e di altri giornali verranno pubblicati su Internet. In tanti, trovandoli interessanti, li condivideranno su Facebook o Twitter. Altri siti di notizie - diversi da quelli originari, i cosiddetti «aggregatori» come ad esempio Google News - li ripubblicheranno per intero. Poiché il traffico su Internet significa pubblicità, il risultato, da un punto di vista economico è che social network e aggregatori (per non dire di Google) lucreranno sul lavoro giornalistico altrui, senza riconoscere un solo centesimo all’autore originario.
È di questo che stiamo parlando. La direttiva approvata ieri, pur avversata fieramente da alcuni movimenti «free speech», serve a introdurre anche su Internet il principio dell’equo compenso per il lavoro giornalistico: se un contenuto protetto da diritto d’autore genera ricavi, la piattaforma che lo ospita deve dividere i ricavi con l’autore. In alternativa, la piattaforma deve essere dotata di filtri informatici in grado di bloccare la pubblicazione di contenuti sottoposti a copyright.
È uno scandalo? No. Youtube, la più grande piattaforma video del mondo, ha già da anni implementato un meccanismo («Content id») che impedisce di pubblicare ad esempio i film di Hollywood: le major del cinema, che su queste cose non scherzano, hanno fatto valere i propri diritti a suon di cause miliardarie nei tribunali americani. Lo streaming musicale attraverso Spotify o Apple Music genera, per ogni brano ascoltato, un piccolo credito (frazioni di centesimo) a favore degli artisti. Il principio, molto semplicemente, è che il lavoro vada retribuito.
La questione non riguarda l’utente finale, ma autori e piattaforme commerciali che dovranno mettersi d’accordo. Google e i social network avranno due possibilità. O stabiliscono regole per lo sfruttamento dei contenuti, oppure ne bloccano la condivisione e l’indicizzazione, ma è improbabile che questo possa avvenire (immaginate Twitter senza più notizie: farebbe prima a chiudere). La direttiva si applica anche agli «snippet», cioè i titoli e le anteprime degli articoli, quelle che vediamo facendo una ricerca su Google. L’obbligo invece non riguarda né i siti web non commerciali, né le piattaforme no-profit, e nemmeno le scuole o chi usa contenuti altrui a scopo di ricerca (come sempre, quando si copia il lavoro altrui basta citare): Wikipedia può continuare serenamente a pubblicare foto, «meme» e parodie sono esplicitamente escluse, chiunque abbia un blog potrà mantenerlo attivo anche se usa AdWords (il sistema di Google per la pubblicità, basato su parole chiave) perché un meccanismo di condivisione degli introiti pubblicitari come quello immaginato dalla Ue ha un senso soltanto sui grandissimi numeri.
Ora gli Stati dovranno recepire la direttiva nei rispettivi ordinamenti. Dovranno, ad esempio, stabilire nei dettagli il meccanismo dell’equo compenso e le relative eccezioni. Lega e Cinque Stelle ieri hanno votato contro, agitando scenari da Grande Fratello. Non ci hanno capito niente.

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