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Caro Emiliano, errore per il Sud inseguire il Nord sull’autonomia

 
GIUSEPPE DE TOMASO

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GIUSEPPE DE TOMASO

Il presidente Emiliano«Alla mia giunta do 7+»

Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano

Domenica 29 Luglio 2018, 16:40

Bisogna riconoscerlo. Ha dell’incredibile la vocazione del Sud a farsi del male. Ultimo esempio: la richiesta di maggiore autonomia da parte delle Regioni meridionali (tranne Abruzzo e Molise), richiesta avanzata sulla scia delle iniziative autonomistiche (referendarie e post-referendarie) di Veneto e Lombardia, seguite dall’Emilia-Romagna. E pensare che la letteratura federalistica non agevola i malintesi: il federalismo, insegna la storia, può funzionare solo nelle nazioni omogenee sul piano socio-economico, viceversa nelle realtà disomogenee, com’è il caso dell’Italia, può produrre più bagni di sangue di due guerre mondiali. Ma siccome la voglia di stupire, ignorando le lezioni del passato (e del presente), dev’essere più irresistibile di un selfie con Cristiano Ronaldo (per i tifosi juventini), ecco che il mito dell’autonomia regionale, anche al Sud, non smette di fare proseliti. Anzi i suoi neofiti sono in continuo aumento.

Fossimo al posto di Michele Emiliano non ci accoderemmo al treno degli autonomisti regionali a caccia di maggiori poteri. Anzi, ci opporremmo con forza al loro disegno. Non ci accoderemmo per una ragione assai semplice. È vero: chiedere più autonomia, ossia più competenze, significa chiedere più risorse allo Stato centrale. Attenzione, però. Ciò consentirebbe alle Regioni ricche di trattenere più soldi sul loro territorio e di darne di meno a Roma. Il Veneto poi, ne vuole così tanti, di poteri e sghei, da prefigurare, di fatto, la sua evoluzione in Stato autonomo. In concreto: le Regioni più danarose verserebbero meno quattrini alla cassa centrale, venendo meno così allo spirito e alla lettera della Costituzione. A meno che non si crei un Fondo perequativo a beneficio delle Regioni più povere. Ma ai governanti del Nord preme impiegare localmente i tributi pagati dai loro contribuenti, con l’obiettivo, dicono, di ridurre il «residuo fiscale» (la differenza tra quanto si paga in tasse e quanto si riceve sotto forma di servizi). Vabbè. Comunque, quanto sarebbe profondo il Fondo perequativo?

Alle corte. Attribuire poteri su poteri alle Regioni è pericoloso per lo Stato nazionale che rischia di frantumarsi in mille pezzi come un cristallo. È pericoloso per il Mezzogiorno che rischia di disporre di meno risorse di quanto ne possa ricevere oggi. È pericoloso per lo stesso Settentrione che, alla fine della giostra, rischia di pagare lo scotto dello spappolamento generale.
Sostengono al Nord: «Vogliamo gestire noi le nostre risorse, quelli del Sud si arrangino sulla base del poco, o di quello che riceveranno da Roma». Per le Regioni meridionali non è una bella prospettiva, non soltanto perché il loro Pil è notoriamente inferiore, e di conseguenza anche il loro gettito fiscale è più modesto, ma anche perché già adesso si ottengono paradossali effetti a catena, tutti negativi per il Mezzogiorno, su diversi fronti.

Prendiamo il caso dell’Iva. Oggi questa imposta pagata dal consumatore va direttamente allo Stato che ne gira quasi la metà alla Regione del produttore. E siccome le sedi legali dei produttori sono prevalentemente al Nord, anche le aziende acquisite al Sud, ma con sede legale al Nord, finiscono per portare risorse innanzitutto nell’Italia ricca. E così pure i consumi dei meridionali aiutano il Nord, prima con gli acquisti al supermercato, in seconda battuta con la distribuzione della quota Iva.
Le Regioni del Sud avrebbero dovuto fare squadra per reclamare, a mo’ di risarcimento per le disparità oggettive di cui sopra, un super-programma di investimenti in opere pubbliche, ma la classe politica meridionale si è distinta più nel chiedere potere individuale che nel sollecitare iniziative perequative, anche alla luce delle recenti politiche di austerià europee, che indubbiamente non hanno favorito il Mezzogiorno.

Tanto per cominciare, si potrebbe rovesciare il principio che sta alla base del riparto del 40-45% dell’Iva che, come già detto, va a finire nelle Regioni dove si trova la sede legale delle aziende produttrici. Il riparto dell’Iva, invece, dovrebbe premiare la sede produttiva, non la sede legale di un’impresa. Il riparto dovrebbe privilegiare le Regioni nel cui territorio si fabbricano i prodotti. Il gettito Iva potrebbe anche essere vincolato alla realizzazione di infrastrutture nel Sud. Ma di questo genere di compensazioni, la cui sperimentazione sarebbe logica e sacrosanta, non parla nessuno, essendo tutti orientati a invocare più competenze, più influenze, cioè più poteri. Nessuno che obietti: prenderemo in esame la questione dell’autonomia fiscale solo quando si saranno realizzate le pari opportunità tra Nord e Sud.

Si dice: però, lo Stato che accentra è meno efficiente e più sprecone rispetto a uno Stato che delega. Davvero? I dati Istat dicono che, almeno in Italia, si è verificato il contrario: la spesa sanitaria tra il 2003 e il 2013 è salita del 32,7%. Il balzo maggiore ha riguardato il Nord, in particolare le aree a statuto speciale: il Friuli-Venezia-Giulia (+49,6%) e la provincia autonoma di Trento (+47,8%). Ma anche la Lombardia, l’Emilia-Romagna e la Toscana non si discostano da quelle cifre. L’unica cosa che hanno fatto le Regioni, in materia sanitaria, è aumentare imposte e addizionali, che spesso sono servite a coprire sprechi e scandali (evviva il federalismo: della corruzione).

Insomma, tutti gli interventi che finora hanno tolto poteri allo Stato centrale, specie all’indomani della sciagurata riforma (2001) del Titolo Quinto della Costituzione, hanno generato risultati opposti a quelli sperati, soprattutto al Sud.
Che vogliamo fare? Vogliamo completare l’opera dissestando e distruggendo lo Stato nazionale? In cambio di cosa: del primato delle Regioni, il cui avvento, come paventò Ugo La Malfa (1903-1979), avrebbe portato alla malora l’intero Paese? Vogliamo accelerare con l’autonomia l’agonia dello Stato nazionale?

Si sostiene che le Regioni devono contare di più nelle scelte del governo nazionale. Ok. Nessuno può e deve impedire loro di dire la propria. Ma, in caso di conflitto, qualcuno dovrà pure decidere: o lo Stato o le Regioni. Se l’ultima parola toccasse a quest’ultime, significherebbe che l’ideale unitario, per il cui raggiungimento hanno fatto i miracoli Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) e Giuseppe Garibaldi (1805-1882) e sono stati versati fiumi di sangue umano, anche meridionale. è morto e sepolto. Una prece.

detomaso@gazzettamezzogiorno.it

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