Decio Scardaccione
Carmela Formicola
26 Settembre 2018
«E adesso anche tu emigri? Qui c’è tanto da fare...». L’aveva detto a un suo amico prossimo a trasferirsi a Roma, perché andare via dalla Basilicata era una sorta di strada obbligata soprattutto per certi intellettuali. Decio Scardaccione, invece, aveva deciso di rimanere, in Basilicata, di insistere, di esistere, di resistere nella terra della sua infanzia. Poi anche della sua vecchiaia.
Ancora oggi qualcuno lo ricorda come «zio Decio», perché «zio» racchiude entrambi i sentimenti, l’affetto e il rispetto. Allo stesso modo l’economista, il meridionalista poi anche il politico, emanava entrambe le qualità di uno zio: la dolcezza e l›autorevolezza. Ma più che uno zio, Scardaccione fu un visionario, intuì quanto diversa sarebbe diventata la sua terra, intuì strade al posto dei tratturi, e benessere al posto della miseria.
Nato nel cuore della Basilicata, in quel ventre chiamato Val d’Agri (a Sant’Arcangelo, per esattezza), in un 1917 dove tutto era perfino più arcaico, remoto e primordiale della lucania di Carlo Levi. Quel paesaggio diventò la radice potentissima del suo lavoro futuro, una sorta di ispirazione che ha connotato innanzitutto i suoi studi, dalla Scuola pratica di agricoltura di Eboli alla laurea in Agraria presa a Bari nel 1943, quando ampi territori lucani erano ancora palude, destinati alla bonifica solo nel decennio successivo grazie a un gruppo di leggendari pionieri della moderna agricoltura.
Visionario e illuminista: al centro del suo pensiero c’è l’uomo e dunque quel grande popolo di contadini al quale restituire dignità e possibilmente ricchezza. Ecco perché negli anni Sessanta (all’epoca era docente di Estimo rurale ed Economia e politica agraria all’Università di Bari) tiene in Basilicata corsi di formazione di un anno ai contadini assegnatari della Riforma agraria. Il suo pensiero era potente e per certi versi rivoluzionario: i contadini non devono passare dall’asservimento ai latifondisti all’asservimento alle nuove forme di impresa agraria. I contadini devono essere protagonisti. E anche la Basilicata ha bisogno di un nuovo protagonismo. Queste le sue visioni portate avanti grazie alle qualità tipiche di un uomo della terra seppur di nobilissima origine: la fatica, il tempo, la pazienza.
Fondamentale il suo impegno da presidente dell’Ente di Riforma. Da questo avamposto sferrò una sorta di sfida a tanti meridionalisti dell’epoca, note, ad esempio, le sue divergenze d’opinione con Manlio Rossi Doria. Ecco, l’idea era di dimostrare che questo pezzo di Mezzogiorno non era solo «osso», non era più «osso» ma aveva avviato la sua mutazione genetica, la sua trasformazione in «polpa».
Né va dimenticato il suo impegno politico. Intimamente legato alle fortune di consenso della Democrazia cristiana lucana, seppur vicino ad Emilio Colombo, nel 1970 dà vita alla Sinistra di Base della Dc con un altro protagonista della storia moderna lucana, Romualdo Coviello (che aveva sposato Ester, figlia di Decio, avvocatessa brillante, donna straordinaria, impegnata ed amata, scomparsa tragicamente nel 1997). Dagli anni Settanta in poi, cambiano molte cose. È in questa fase che zio Decio assiste dolorosamente all›abbandono delle campagne, all’avvio di un fenomeno inarrestabile, lo spopolamento delle zone interne (che i burocrati romani, non senza una sfumatura di razzismo, ribattezzarono presto «zone svantaggiate»). Scettico anche sulla stagione dell›industrializzazione, Scardaccione ha lentamente lasciato la scena politica. Molti concordano sul fatto che il guizzo del suo sguardo aveva cominciato ad affievolirsi proprio dal 1997. Ma ziodecio ha continuato a guardare fino all’ultimo suo respiro (il 29 marzo del 2003) la Basilicata, il suo popolo, le sue trasformazioni profonde, i traguardi, le sconfitte.
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