Fiat
Massimo Brancati
25 Settembre 2018
Era il 21 ottobre del 1989 quando, in una villa della collina torinese, Cesare Romiti e Gianni Agnelli parlarono del progetto dello stabilimento lucano della Fiat. Parole che si tradussero due anni dopo in un investimento di 6mila miliardi delle vecchie lire, di cui 1.400 stanziati dallo Stato. Melfi doveva nascere per salvare l'azienda automobilistica che, svanito il boom degli anni Sessanta, sembrava destinata al fallimento. Economisti di mezzo mondo le avevano predetto morte certa. L'”astronave” dell'Avvocato atterrò sulla piana di San Nicola con un carico di speranza per il Sud del Sud, martoriato dal terremoto dell'80. Il Lingotto ne trasse linfa vitale e portò in Basilicata il suo nuovo modello “just in time” all'interno di una fabbrica moderna, organizzata, futuristica.
Da allora è cambiato tutto, a partire dal nome. Non più Fiat ma FCA, acronimo di Fiat Chrysler Automobilies, nato dalla scelta lungimirante di Sergio Marchionne, capace di stringere accordi con l'industria americana e di rendere più “internazionale” il brand della famiglia Agnelli. Il manager in cashmere nel solco tracciato dal capostipite con l'orologio sul polsino. Entrambi animati dal sacro fuoco del business: Gianni intuì le potenzialità di uno sbarco in Basilicata, Sergio le ha rigenerate all'interno di una visione mondiale dell'automotive, lasciando in eredità un diamante da lustrare per poter reggere l'onda d'urto di una competizione sempre più agguerrita. Oggi a Melfi vengono prodotte due auto, la Jeep Renegade e la 500X, che hanno risollevato le sorti dell'azienda e che proiettano lo stabilimento lucano tra i più dinamici del gruppo. Aspettando l'erede della Grande Punto, il cui ultimo modello è stato “sfornato” agli inizi di agosto, la fabbrica vive una stagione di rilancio, di entusiasmo che nemmeno i timori del forzato passaggio di consegne tra Marchionne e Manley riescono a scalfire.
Come sono lontani i 21 giorni della rivolta del 2004, i tempi della lotta operaia sui turni, sulle condizioni di lavoro, sull'allineamento degli stipendi rispetto agli altri stabilimenti del gruppo. Laddove ribollivano rivendicazioni di operai avviluppati nei contrasti con il “padrone”, oggi campeggia un clima di fiducia sulla cenere di prospettive funeree. Cambiano i tempi e i protagonisti, ma l'azienda torna ad aggrapparsi a Melfi per risollevarsi, alla gente del Sud sobria, laboriosa che, negli anni '90, contribuì a rendere la fabbrica un modello conquistando primati su primati: seconda in Europa per produttività, dopo la Ford di Russelsheim in Germania, la più efficiente del gruppo con un tempo di lavoro attivo di oltre il 93 per cento rispetto all’86 degli altri stabilimenti, produttività per addetto di una settantina di auto l’anno, quattro-cinque volte Mirafiori. Standard raggiunti con un livello di partecipazione intenso dei lavoratori. Quell'intensità che Marchionne ha sempre chiesto ai dipendenti per vincere la sfida del mercato globale. Lui correva e voleva che anche gli altri procedessero con il suo passo. Quel passo che ha consentito a Melfi di diventare il simbolo della metamorfosi epocale avvenuta non solo nel Lingotto ma in tutto il mercato mondiale dell'auto. Il manager italo-canadese ha dato un profilo internazionale alle fabbriche italiane, consentendo alla vecchia Fiat di scrollarsi di dosso una sorta di provincialismo aziendale che si traduceva nella scelta di produrre solo vetture di segmento medio-basso destinate prevalentemente al mercato locale.
E dire che quando decise di “denazionalizzare” un simbolo del made in Italy fu sommerso da critiche. Oggi, invece, sappiamo che quella scelta è stata la strada giusta da percorrere per salvare le fabbriche e l'occupazione: l'aver puntato su segmenti premium ad alto valore aggiunto era l'unico modo per salvare e incrementare posti di lavoro a Melfi, dove la cassa integrazione costituiva il prodotto di un'inerzia, l'anticamera della mobilità e non, come sta accadendo in questi giorni, il sacrificio finalizzato a una nuova sfida, al dopo-Punto, all'entrata nel mercato finora inesplorato (colpevolmente, diceva Marchionne) delle auto ibride. Il compito che attende tutto il mondo Fca, dal nuovo amministratore delegato all'ultimo operaio, è quello di portare a compimento la fase di transizione che è costata l'accordo sui contratti di solidarietà, con l'obiettivo di sfruttare le opportunità offerte dalle tecnologie applicate alle motorizzazioni ecologiche, di nuova generazione. È questa la strada tracciata con il nuovo piano industriale, vero e proprio testamento aziendale di Marchionne.
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