Le luci dell’Eremo di Molfetta accolgono l’epilogo del tour dei Ministri, che domani 22 novembre si esibiranno nell'ultima data del giro di palchi nei club di tutta Italia, portando la natura feroce e vulnerabile dell'ultimo album, Aurora Popolare, insieme alla forza comunicativa di band che da vent'anni racconta una generazione che cade, si rialza e continua a far rumore. Il trio milanese ha raccolto una serie di sold out nel tour organizzato da Locusta Booking, e continua a essere al centro del discorso rock italiano per potenza scenica e capacità di fotografare il tramonto delle illusioni e la consapevolezza adulta che molte rivoluzioni — quelle attese, sognate, immaginate — non arriveranno mai. A guidare l’uscita dell’album scritto e composto da Federico Dragogna, Davide «Divi» Autelitano e Michele Esposito, è stato guidato dalla focus track «Piangere al Lavoro», accompagnata da un video ambientato nella loro Milano, «regina indiscussa» dei pianti in uffici e bagni aziendali, alla ricerca di un luogo dove piantare una bandiera, simbolo di resistenza ordinaria.
Divi, il tour è ormai finito: un bilancio?
«Estremamente positivo. Dopo un periodo di stop, c'era un po' un carico di ansia e aspettative, ed è andata molto meglio del previsto. Evidentemente i Ministri sono una realtà che anche se esiste da tanto riesce comunque a rigenerarsi, a trovare spazio nelle generazioni nuove. Sulla parte discografica abbiamo chiaramente il nostro zoccolo duro di fan, ma i concerti per come siamo abituati portano una buona dose di divertimento, e credo si faccia un sano proselitismo tra i ragazzi più giovani, che vengono per sfogare in maniera assolutamente genuina la loro dimensione feroce. Una sorta di liberazione dalle insicurezze e dalle fatiche».
Come band avete attraversato varie fasi, qual è stata secondo voi la cosa più difficile da mantenere viva?
«Noi siamo un progetto corale, abbiamo tre individualità che pesano nell'economia di gestione, e quando ci si confronta con una musica in continuo cambiamento, tanti interrogativi vengono fuori: la paura di perdersi nella nicchia o nella sabbia del tempo. Oggi possiamo dire di non aver soverchiato il nostro sistema di valori iniziale o le nostre scelte musicali, e a distanza di anni ci ritroviamo con un senso di forte autorevolezza rispetto al genere e una fortissima credibilità. Trasformando questo discorso in un consiglio, inviterei chi attraversa cambiamenti generazionali attraverso la musica a non spaventarsi e non cedere troppo alle pressioni, perché il traguardo è molto nobile».
Il filo rosso della vostra discografia è la tensione tra voglia di combattere e disillusione. Secondo lei, nella musica, qual è la più grande illusione evaporata, e cosa invece è rimasto intatto?
«Una volta, per noi che siamo stati ascoltatori negli anni ’90, e portatori di valori anche sovversivi, si parlava di controcultura. C'era la sensazione che attraverso la musica si potesse davvero cambiare qualcosa. Oggi la musica è vissuta come modo per arricchirsi, per fare business, la gente la approccia per fare imprenditoria, è un bene di consumo e l’ascoltatore è un consumista. Con questa cosa inevitabilmente andiamo poco d’accordo: per noi è un lavoro, l’attinenza con il concetto di guadagnarsi da vivere ce l’ha. Ma è fondamentale che nel momento in cui la si condivide con la gente, diventi qualcosa di più alto. Se non c’è questo binomio, tra la tua arte e le persone davanti a te, non ci può essere cultura».
E nonostante i quasi vent'anni di carriera, vi sentite ancora in grado di raccontare le generazioni attuali?
«Penso che le nuove generazioni abbiano paura delle precedenti, perché nel passaggio di testimone le più "vecchie" tendono a essere severe, incattivirsi, per nostalgia o consapevolezza di non aver messo a fuoco certi sogni. Abbandonando un po’ questo senso di austerità potremmo stringere una bella alleanza con la generazione che verrà. Noi cerchiamo di mantenerci sereni e puri nel dialogo, li incoraggiamo, e questo per assurdo ci restituisce forse un’immagine più giovane di quella che abbiamo. Vedere che i giovani si entusiasmano è un chiaro segnale che abbiamo fatto gol da questo punto di vista, e continuiamo su questa strada».
Artisticamente c'è ancora qualcosa che non avete fatto e vorreste fare?
«Al momento siamo appagatissimi, perché l’obiettivo principale era riuscire a ritagliarci una vita facendo questa cosa che, come dicemmo dal primo disco, è “suonare per non lavorare mai”. Lo sentiamo ancora come motto. Però sappiamo che è un mestiere che ha bisogno di stimoli. Quindi non so cosa riserverà il futuro, però ci piacerebbe pensare sempre più in grande».
















