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Dalla Puglia a New York la storia di Django Music: «Premiati dalla nostra costanza»

 
Bianca Chiriatti

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Bianca Chiriatti

Dalla Puglia a New York la storia di Django Music: «Premiati dalla nostra costanza»

Parla Carmine Errico, tra i fondatori dell'agenzia di booking di concerti e management indipendente: dagli esordi con Clementino e Inoki alla conquista del globo con Seun Kuti

Giovedì 26 Ottobre 2023, 15:35

Una tra le poche realtà, sicuramente tra quelle pugliesi, a essere contemporaneamente agenzia di booking di concerti e management indipendente con una costante attività all'estero. È Django Music, società che si occupa di distribuzione di tour di artisti italiani e internazionali, con sede a Bari e Bologna, fondata da Carmine Errico, Amedeo Sole e Leonardo Pascale.

Tantissime le attività, produzione di eventi, etichetta discografica, editoria musicale, con all'attivo un catalogo che vanta dischi leggendari dell'hip hop italiano, tra cui «I.E.N.A.» di Clementino e «Fabiano detto Inoki» di Inoki. Un lavoro a stretto contatto con artisti del calibro di C'Mon Tigre, Murubutu, Mellow Mood, Claver Gold, Davide Shorty, Bassi Maestro, Johnny Marsiglia, Godblesscomputers, Dj Gruff, oltre a una serie di artisti internazionali che spaziano dal jazz alla world music, passando per l'elettronica.

Emblematica è la collaborazione con il leggendario cantante e musicista nigeriano Seun Kuti (figlio di Fela Kuti), per cui oggi Django Music cura il management internazionale che gestisce ogni suo aspetto, in tutto il pianeta. Inoltre nel 2023 è stata la prima società italiana a contrattualizzare la vendita di uno spettacolo all'Apollo Teather di New York, portando lì proprio un concerto di Seun Kuti & The Egypt80. Carmine Errico, pugliese doc. (è nato a Toritto, nel Barese), racconta alla Gazzetta qualcosa in più sulle attività di Django Music.

Da dove è nata l'esigenza di fondare la vostra realtà e quando avete capito che stava diventando consolidata?

«È stata la determinazione di voler essere professionalmente autonomi. Django è una società che è nata tra Bari e Bologna e ognuno di noi viene da esperienze pregresse. Abbiamo avuto la fortuna di avere fin da subito un roster di artisti che ha creduto in noi e con cui abbiamo fatto sold out nei più importanti club italiani. Sottolineando il nostro carattere indipendente, la costanza nel lavoro credo che ci abbia premiati, perché sempre più artisti hanno espresso il desiderio di lavorare con noi. Quando da fuori riconoscono il tuo valore, è sempre un buon segnale».

Avete avuto modo di lavorare con artisti ben affermati nel panorama nazionale e non solo: quale l'incontro che vi ha cambiato la vita?
«Ogni artista con cui ho lavorato mi ha dato la possibilità di crescere, e ogni esperienza mi ha dato maggiore consapevolezza su come pormi nei confronti del mio lavoro e quello degli altri. Molto spesso si impara più dalle brutte esperienze che dalle buone, per capire come migliorarsi. Per cui potrei mettere sullo stesso piano l'incontro con Seun Kuti, che ci sta portando a un livello lavorativo incredibilmente soddisfacente, a quando ho dovuto scongiurare, per tre volte consecutive, l'annullamento di un set di un dj americano un po' troppo capriccioso: mi ha rafforzato tanto».
Siete riusciti a espandere la vostra attività davvero in tutto il pianeta: qual è il punto di forza e il traguardo più grande che avete raggiunto?
«Credo che il punto di forza sia lavorare sempre con la massima umiltà e puntare a obiettivi sempre più lontani. Uno dei limiti di chi vive al Sud non è quello di essere circoscritti geograficamente, ma essere relegati mentalmente a un'appartenenza, a un confine, a un limite che viene imposto dall'esterno. La difficoltà sta nel superare questo preconcetto. La musica è un bene immateriale che permette di arrivare ovunque nel mondo, pone le basi per creare business sparsi ovunque. Personalmente credo che l'esperienza più bella vissuta fino ad ora sia stata quella all'Apollo Theater di New York, insieme a Seun Kuti. La direttrice del teatro mi ha accolto abbracciandomi e dicendomi: "Non vedevo l'ora di conoscerti! Qui tutti parlano bene di te, sembrava non ci fosse fuso orario tra noi vista la rapidità e precisione delle tue risposte". Il giorno dopo il concerto me lo ha ribadito con una mail, in cui ha messo in copia tutti i dipartimenti dell'Apollo. Io passeggiavo per le strade di Harlem e sono scoppiato in lacrime dall'emozione. La mia risposta, quando ci siamo incontrati, è stata: "Sono onorato di sentirmelo dire: quando ho ricevuto la vostra prima mail pensavo fosse uno scherzo o una truffa". Sono grato alla vita per avermi permesso di vivere un'esperienza simile, proprio io, nato a Toritto, paese di ottomila persone».
Osservando in che direzione sta andando la musica al giorno d'oggi, partecipare a un talent ha ancora lo stesso valore di dieci anni fa?
«Credo che i talent siano il doping del mercato discografico. Non mi va di criticare determinati generi, ognuno ascolta quello che vuole. I talent hanno dietro major che confezionano prodotti e utilizzano i programmi per testare progetti musicali, immettendoli potenzialmente su un mercato, agevolati dal riflesso di una popolarità immediata e passaggi televisivi assicurati. Per cui il divario tra l'immediatezza del pop e la musica più impegnata che non ha spazio nei canali principali, aumenta sempre più. È sempre accaduto, ma ora il meccanismo è stato solo accelerato. Chi vince i talent? Chi li presenta! Io li seguo perché mi piace capire in quale direzione va il mercato. Prima c'erano i trapper, ora tornano le chitarre. Noi ad esempio lavoriamo con Davide Shorty che è stato vicino alla vittoria di X-Factor. Ma quello che ha costruito nella sua carriera non è di certo frutto di quella partecipazione: è un ragazzo con un talento immenso, scrive canzoni, è costantemente in tour. Il suo successo è avvenuto al di fuori del programma. Poi casi di successo ce ne sono e sono sotto gli occhi di tutti. Ma sono casi».
Tra nicchia e mainstream, oggi un giovane si può autoprodurre e raggiungere una fama lampo grazie a TikTok: un danno per la filiera musicale o un modo diverso per «scovare talenti»?
«Internet è una grandissima risorsa, lo ringrazio per tutto quello che mi ha permesso di fare. Ma penso che la fruizione del web come mezzo di propaganda artistica finalizzata al successo sia un po' una leggenda. C'è bisogno di tanta innovazione, strategia, costanza e perseveranza. Poi c'è di tutto sui social: da quel genio di Jacob Collier, a quelli che diventano popolari col trash. Le cose da analizzare sono il motivo che ti porta a diventare popolare, come riesci a gestire quella popolarità. E soprattutto bisogna far passare il messaggio che non tutti possono diventare famosi coi social. Altrimenti rischiamo di creare una schiera di ragazzine che pensano di poter essere potenziali Chiara Ferragni, quando essere Chiara Ferragni non è per tutti. Poi è vero che i social, e in particolare Tik Tok, hanno cambiato il modo in cui la musica viene veicolata, il look diventa fondamentale, di pari passo. TikTok ti fa credere che la tua musica sia adeguata solo se la si può associare a un contenuto video o a un balletto. Viviamo in un'epoca in cui bisogna essere bravi a decodificare, assimilare e sfruttare ogni mezzo a proprio favore».
La situazione in Puglia è musicalmente migliore rispetto ad altri posti in Italia?
«La Puglia è una regione di eccellenza dal punto di vista culturale, anche grazie a una politica che da Vendola in poi è stata molto attenta alla filiera. E non parlo solo di musica. Guardiamo quello che sta accadendo col cinema. Siamo una regione in grado di vendersi grazie a un'identificazione culturale di pari passo con la bellezza dei luoghi. Per questo risultiamo affascinanti. Se parliamo di industria musicale abbiamo diverse realtà, molti operatori, festival di eccellenza, eventi importantissimi. Ma non è certo qualcosa che non accade altrove. Un unicum può essere considerato il Medimex. Dal punto di vista artistico abbiamo gruppi che si sono imposti sul mercato come i Negramaro, Caparezza, BoomDaBash, Alessandra Amoroso, ma anche i Sud Sound System. E sono quasi tutti salentini: alla faccia di chi crede che essere del profondo Sud possa essere un punto a sfavore. In ogni caso ho sempre ramificato molto poco all'interno della nostra regione, per cui sono distante da certe dinamiche e non nascondo che non mi dispiace».
Prossimi progetti?

«Stiamo lavorando su tanti fronti. Abbiamo una decina di tour che già sono partiti, sia in Italia che all'estero, e costantemente ne annunciamo di nuovi. Siamo una società di booking di concerti ma ci occupiamo anche di management, editoria musicale, discografia. In tutti questi campi siamo in costante movimento». 
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