Quante volte abbiamo provato a chiederci come reagirebbero i compositori del passato se, per una breve parentesi, dovessero tornare a materializzarsi ai nostri giorni nei luoghi in cui sono nati? A questa domanda ha cercato di dare una risposta il pianista dauno Roberto De Nittis, immaginando, ovviamente, che il protagonista di questo viaggio nel tempo potesse essere il grande Umberto Giordano, tornato, manco a dirsi, nella natìa Foggia.
Classe 1985, diplomatosi in pianoforte jazz appunto a Foggia, al Conservatorio «Giordano», De Nittis ha proseguito i propri studi a Rovigo sotto la guida dell’indimenticato Marco Tamburini e di Stefano Onorati, prima di «laurearsi» anche al referendum Top Jazz che lo ha indicato come miglior nuovo talento italiano del 2019. Ora è al suo secondo album, dal titolo «Maé» (etichetta Caligola Records) che nei giorni scorsi è stato presentato in concerto proprio nel Conservatorio del capoluogo dauno, dove il disco è stato registrato dal vivo a giugno scorso, con l’orchestra sinfonica giovanile dell’Istituto, diretta da Andrea Palmacci.
Com’è noto, i rapporti di Giordano con Foggia non furono propriamente idilliaci: il grande compositore abbandonò la città nel 1892, deluso per l’accoglienza distratta che il pubblico locale riservò alla sua opera «Mala vita». Uno strappo che venne poi ricucito solo nel 1928 quando Giordano viveva stabilmente al nord e, soprattutto, aveva ormai raggiunto uno status riconosciuto a livello internazionale.
Inevitabile partire da questo dettaglio biografico per inquadrare l’operazione di De Nittis che ha scelto intelligentemente di lavorare esclusivamente su musiche originali, realizzando una serie di «quadri» decisamente molto efficaci suddivisi in rievocazioni di luoghi della città e delle figure familiari legate al dedicatario. Così strutturato, il percorso prende le mosse dal ternario «La banda colta», rievocando inevitabilmente quella tradizione tutta pugliese che giocò il suo ruolo anche nella formazione di Giordano. «La ballada di Giordano» si fa apprezzare per il suo lirismo dolente che prelude al più vivace «Bancarelle» nel quale l’autore descrive il clima di un mercato rionale, attraverso una scrittura orchestrale capace di riecheggiare qua e là persino Gershwin e Bernstein.
«Madia» è una danza malinconica seguita dall’ironico «Don Gaetano», la cui andatura caricaturale tratteggiata dal fagotto di Francesco Pio Russo assume lentamente i tratti di un blues accattivante. E se «Umbé» è uno «straight jazz» dalla gustosa varietà ritmica, il successivo «Maé» (maestro, ndr), che dà il titolo al cd, si fa apprezzare per la scrittura di ampio respiro riservata agli archi. Il lessico più squisitamente jazzistico torna a conquistare la scena in «Struscio», che vuole descrivere una rituale, forse anche scanzonata, passeggiata serale, mentre il conclusivo «Napoletana» si divide fra una introduzione dai colori veristi e una seconda sezione dal sapore vagamente orientale sostenuta da un pedale del basso che incornicia un bell’assolo di clarinetto della sarda Zoe Pia, con campionature dalle sonorità quasi hendrixiane.
Ben sostenuto dall’ottimo lavoro di Riccardo Di Vinci al contrabbasso e Marco Soldà alla batteria, De Nittis si fa apprezzare non solo come autore dalla felice ispirazione, ma anche come pianista ben incardinato nella letteratura del cosiddetto modern mainstream, che dimostra di conoscere e dominare autorevolmente. Un bel progetto, degno di rievocare i fasti jazzistici della terra di Capitanata che – sia detto per inciso –, oltre a vantare una tradizione musicale di tutto rispetto, ha anche un primato regionale: fu a Foggia che, nel 1974, nacque il primo festival pugliese dedicato alla musica afroamericana. Ma questa è un’altra storia che, prima o poi, andrà pure raccontata.